Laureato in fisica con 110 e lode, meteorologo presso il Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, volto Rai di “Geo”. Romanista.
Lui è Filippo Thiery, 53 anni. “Tifoso da 54. Dopo diverse richieste di interventi su temi legati al mio lavoro, che bello poter essere intervistato dalla Roma, sulla Roma”.
Il nostro invito lo lusinga e lo emoziona. Romanista, tanto. A volte si prepara la colazione sistemando sulla fetta biscottata tre colori diversi di marmellate per riprodurre a tavola la “ghiacciolo” della Pouchain di fine anni 70. “Ma lo faccio solo nei giorni festivi...”.
Il 20 marzo ha voluto ricordare con un post sul suo profilo Twitter i 40 anni dalla prima partita allo stadio Olimpico. Serie A 1982-83, Roma-Udinese 0-0.
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40 anni è tanto o nulla per chi ama visceralmente questa squadra, “che non è una squadra di calcio. È un filo conduttore dell’esistenza che si incrocia con quello degli altri”. Questo prescinde da un risultato, un derby o una coppa vinta o persa.
“È amore. Un amore infinito. 40 anni fa il battesimo allo stadio, da 36 stagioni consecutive sono abbonato. Prima in Distinti, da qualche tempo nella Sud laterale. La partita non si può non vivere allo stadio”.
“La Roma è una cosa seria”, ha scritto su quel post.
“Essere romanisti è la cosa più bella e seria che ci può essere, ed è gioia per definizione. Come ha detto una volta Damiano Tommasi, “La Roma è a prescindere”. Unisce le generazioni, collega gli istanti della vita di una persona, col passare dei decenni cambia praticamente tutto, nel bene e nel male, tranne che la squadra.
Ti permette di ricordare dettagli della vita che in condizioni normali non ricorderesti. Se un giorno allo stadio c’era il sole e faceva caldo, non potrai dimenticarlo.
Ti ritrovi a parlare della Roma in momenti insospettabili della nostra vita, magari per un riferimento a caso. Così, anche se sei con uno sconosciuto, scatta quell’occhiata complice. Quella condivisione fanciullesca.
La Roma è un pensiero, un’idea, un sentimento, un modo di vivere la vita, viscerale e sornione. Quella capacità tutta romana e romanista di ironizzare con intelligenza e condensare il concetto in poche parole. O anche in una sola. Un po’ come faceva il maestro Gigi Proietti”.
Di quella prima volta allo stadio, cosa non dimentica?
“Ho diverse immagini in testa. Avevo 13 anni, mi accompagnò un amico di classe. Andai con una sciarpetta a righe giallorosse come andavano allora, comprata qualche tempo prima alle bancarelle di Piazza Navona, fu un regalo natalizio di mio padre. E con una bandiera acquistata il giorno stesso nei pressi dello stadio. Ancora oggi porto con me questi due oggetti.
La sciarpa la indosso ogni partita da 40 anni, la bandiera ha visto dagli spalti anche il terzo scudetto, ora la conservo come una reliquia a casa. Quel 20 marzo fu meraviglioso. Splendeva il sole, era una bella giornata di primavera. La Roma pareggiò 0-0, ma fece lo stesso anche la Juventus che si era rifatta sotto settimane prima vincendo in casa nostra per 2-1. Fu una giornata positiva, una partita in meno verso il titolo. E io capii che avrei voluto tornare in quel posto, allo stadio, più e più volte”.
Lo scudetto arrivò a maggio, il primo della sua vita.
“Una gioia enorme, vissuta vedendo la città esplodere in festa e colorarsi di giallorosso. Purtroppo, non riuscii ad essere presente allo stadio nell’ultima giornata con il Torino. Però c’ero nel 2001, in Roma-Parma. E quella giornata mi ripagò in qualche modo anche di non essere potuto andare 18 anni prima.
Come la notte di Tirana: ha restituito a tanti – me compreso – quella Coppa UEFA sfumata nel ’91 che avremmo meritato dopo un cammino esaltante. E abbiamo idealmente portato accanto a noi, a vedere la Roma alzare la Coppa, tutti coloro che nel frattempo ci avevano lasciato, e oggi non ci sono più. Ma l'emozione della Roma, anche limitandosi agli eventi del campo, non è solo un titolo vinto”.
Spieghi pure.
“Ci sono una serie di boati, di esultanze spasmodiche nella storia nostra che però non hanno portato a vincere coppe o scudetti. Penso al gol di Falcao con il Colonia. Penso al gol di Voeller in Roma-Brondby. Penso – in tempi più recenti – al gol di Toni contro l’Inter di Mourinho.
Momenti esaltanti, anche se non hanno avuto un seguito o un significato in un percorso vincente della squadra. Ed è bello lo stesso così. Per dire, una delle notti più emozionanti per il sottoscritto resta la finale di Coppa Italia del 1984 contro il Verona. Vincemmo la coppa, ma quella partita arrivò dopo il 30 maggio, con il capitano Di Bartolomei che stava per salutare la sua Roma per l’ultima volta. Struggente”.
A proposito del 20 marzo e di momenti, Foggia-Roma del 1994 è un altro passaggio cruciale. Il gol di Giannini, le lacrime, che significarono allontanare lo spettro della B.
“Ero presente allo Zaccheria, quel giorno. Fu un urlo liberatorio intensissimo. Esultavamo per aver evitato una possibile retrocessione, dopo 14 partite senza vincere. Non si era certo in corsa per coppe o scudetti.
Giusto a beneficio di chi a volte parla in modo troppo superficiale di “punto più basso della storia” dopo una sconfitta o una serie di partite non positive. Mio padre Antonio, nato nell'anno del primo scudetto, ha vissuto a 10 anni l’unica stagione della Roma in B. Quello sì che era un momento difficile. Eppure, sa come mi ha sempre parlato di quel campionato?”.
Come?
“Con i lucciconi, emozionandosi. Come quando mi raccontava di Giacomo Losi, me l’ha fatto vedere con i suoi occhi. L’ho vissuto anche io.
Nell’anno della Serie B era difficile seguire le partite in tempo reale, lui andava ad informarsi al bar Masetti in Largo Argentina. Il bar di Guido Masetti. Lì esponevano il risultato della partita”.
Nei suoi ricordi, ha menzionato Mourinho rievocando quel Roma-Inter del 2010. 11 anni dopo, poi, lo stesso Mourinho è diventato il nostro allenatore. Con un annuncio social che colse tutti di sorpresa. E lei ne parlò anche in tv.
“Una sensazione pazzesca, una notizia totalmente inaspettata. Io stavo lavorando a casa, preparando le grafiche del meteo da portare in Rai nel pomeriggio. Restai senza parole, incollato alle chat di WhatsApp con gli amici.
E durante la diretta, Sveva Sagramola mi tirò dentro l’argomento con il suo consueto garbo e ne parlammo per qualche istante. Per me, come dissi anche, era l’unica notizia davvero importante della giornata…”.
Non si trattò di un caso isolato. Anche in altre trasmissioni qualche riferimento qua e là non è mai mancato.
“Vero. Dopo il derby del 2021, vinto 2-0, andai in tv con una camicia rossa e il lupetto al collo. E dopo Roma-Barcellona 3-0, oltre che presentarmi con la cravatta rossa con il lupetto sopra, feci il gesto del tre parlando di una terza perturbazione che avrebbe colpito la Spagna.
Trovai in ogni modo un gancio per poter celebrare quella rimonta storica ed esaltante”.
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Lei è anche un appassionato di fotografia. Su un sito di tifosi ha pubblicato una collezione di foto sterminata sui quartieri imbandierati e colorati di giallorosso nell’estate del 2001.
“Per 20 anni ho conservato i negativi ripromettendomi di digitalizzarle, prima o poi. Due anni fa mi sono detto: "Se non lo faccio per il ventennale, non lo faccio più”.
Erano quasi un migliaio, ne ho selezionate più di 500 da pubblicare online. E oggi sono tuttora disponibili in rete”.
Un lavoro mica da ridere, però una traccia indelebile di quel momento storico.
“Ripeto, per me la Roma è una cosa seria. E ne varrà sempre la pena, anche perché essere romanisti è una gioia. A prescindere”.
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