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Venturi: "Io la Roma non l'ho mai discussa, l'ho solo amata"


Arcadio Venturi significa tante cose. Tra i primi 20 giocatori della storia della Roma per partite giocate (290 tra il 1948 e il 1957). Uno dei 31 volti della Hall of Fame.

Il primo giallorosso del dopoguerra ad essere convocato in Nazionale. Il capitano che scambiò i gagliardetti con Ferenc Puskas in un’amichevole all’Olimpico, che poi diventò la prima partita trasmessa integralmente in tv della Roma.

Centrocampista completo, nativo di Vignola in provincia di Modena, si innamorò della società della Capitale. Uno dei leader indiscussi di “una squadra povera”. Di quella che andò in Serie B nel campionato 1950-51. Nella stessa epoca in cui Renato Rascel al Sistina pronunciò la frase più romanista di sempre: “La Roma non si discute, si ama”.

“Quella di Rascel fu una definizione bellissima, di un grande artista romano e romanista. Ma devo dire che in quel momento più di qualcuno criticò duramente la Roma, andando anche oltre…”.

Cosa successe dopo la retrocessione nel 1951?

“Fu una tragedia. Venimmo bersagliati dalle chiacchiere e in quei giorni uscì pure uno scandalo sui giornali. Alcuni miei compagni di squadra furono beccati dalla stampa dopo alcune frequentazioni notturne. C’erano personaggi che giravano intorno alla squadra che favorivano incontri con certe donne dello spettacolo. Potete capire che reazione ci fu quando questa storia venne resa nota. Per fortuna a me non venne mai in mente di dar retta a quei signori poco raccomandabili”.

Restò fuori dalle polemiche?

“Sì, ero molto giovane e qualsiasi cosa facessi dovevo rendere conto al direttore sportivo Biancone. Quando arrivai nella Capitale mi mandarono a vivere presso una famiglia in una camera ammobiliata in viale del Vignola. Io, di Vignola, andai ad abitare a Roma in viale del Vignola. Da non credere. Tutto quello che facevo lo raccontavo al direttore Biancone… Lui mi convocava in sede a via del Tritone e lì mi metteva in guardia su vari aspetti. Gli chiesi un permesso pure quando acquistai un’automobile”.

Addirittura.

“Presi una Topolino, una vettura non particolarmente grande. Biancone acconsentì solo dopo avendo chiesto che cilindrata fosse. Ero monitorato dalla mattina alla sera, ma fu una fortuna per la mia carriera”.

Come la prese la Roma?

“Era il 1948, ero un diciottenne di buone speranze, ma tutto da verificare in squadre di livello superiore. Militavo in Serie C con la Vignolese, la formazione di una piccola provincia dell’Emilia Romagna. Un osservatore della Roma mi notò e mi portò a Montecatini in prova, dove la Roma era in ritiro. Mi schierarono in una partita amichevole nella quale giocò anche Amadei e la prestazione convinse i dirigenti a tesserarmi”.

Quanto la pagarono?

“Il contratto tra i dirigenti prevedeva questa formula: due milioni di lire alla firma, da versare subito, e poi altri tre milioni e mezzo se avessi giocato trentaquattro partite nei due anni successivi. E invece ne giocai trentaquattro in un solo campionato, al primo. Incassarono sei milioni totali per me. Certo, viene da ridere a pensare alle cifre che circolano oggi nel calcio. Ora i milioni sono di euro e non di lire…”.

L’esordio in campo?

“Avvenne a Bologna, nella prima giornata di campionato, grazie all’allenatore Brunella che mi diede subito fiducia. Si infortunò Zsengeller, serviva un altro uomo di qualità in mezzo al campo. Giocai io, vincemmo 2-1 e da allora il mister non mi tolse più dalla squadra titolare”.

Il primo campionato in giallorosso si concluse con il quattordicesimo posto, una salvezza stentata.

“Vero, evitammo la Serie B per pochi punti, ma questo non servì per evitare la retrocessione nella stagione successiva. Ma era una Roma povera, la società non aveva grandi mezzi a disposizione. Per fortuna, dopo essere tornati in A, arrivò Sacerdoti che attuò un cambiamento radicale. Il presidente portò giocatori di livello internazionale come Ghiggia e costruì una squadra importante”.

Che rapporto la legava a Ghiggia? Alcides decise di chiamare il figlio Arcadio in suo onore...

“Vero e glielo sconsigliai pure... (ride, ndr) Arcadio non mi ha mai fatto impazzire come nome, pure oggi non è molto comune, ma a lui piaceva e decise così. Ero un suo grande amico. Tuttavia, avevo instaurato ottimi rapporti con tutti, ho sempre avuto un carattere espansivo”.

Lo stipendio dell’epoca?

“Circa 105.000 lire al mese. Ed era un ottimo ingaggio perché io militavo in una squadra come la Roma che faceva capo a una città con almeno cinquecentomila abitanti. All’epoca lo stipendio variava anche da questo fattore: più persone venivano a vederci allo stadio, più prendevamo ogni mese. Non c’erano ovviamente gli introiti delle televisioni o altre entrate. Tutto dipendeva dal botteghino”.

La Roma per lei?

“I migliori anni della mia vita. Se avessi potuto, sarei rimasto tutta la carriera. Non l’ho mai discussa la Roma, io, l’ho solo amata”.