L’ultimo, in ordine di tempo, è stato Filippo Maria Scardina. Classe 1992, ad oggi il 25/esimo esordiente più giovane della storia giallorossa. Scese in campo la prima (e unica volta) a 17 anni e 293 giorni. Fece subito gol, poco dopo essere entrato sul terreno di gioco al posto di Okaka. CSKA Sofia-Roma 0-3, Europa League. Lui segnò la terza rete. Correva l’anno 2009, poteva essere l’inizio di una carriera da predestinato. Le cose sono andate diversamente da come avrebbe immaginato. In ogni caso, Scardina oggi fa il professionista. È un attaccante di categoria in Serie C, tesserato per la Pergolettese, società di Crema.
Partiamo dall’attualità. Com’è vivere e giocare in Lombardia, la regione italiana più colpita dal Covid?
“Devo dire, in questa squadra sono a mio agio. Dopo diverse stagioni al Sud, quest’anno ho deciso di venire al Nord dove ho trovato un club organizzato e che mi fa sentire in una famiglia. In questo momento storico è difficile concentrarsi solo sulla partita. Ci sottoponiamo spessissimo ai tamponi, in questa settimana ne faremo tre, c’è la continua apprensione di risultare positivi. Paura che ho avuto io stesso la settimana scorsa più di altri miei compagni”.
Motivo?
“Perché dopo la partita che abbiamo giocato a Como, ho iniziato ad avvertire chiari sintomi influenzali. Febbre, placche alla gola. Non sono stato bene. Fino a quando non mi sono sottoposto al tampone, risultato negativo. Ho temuto di essere contagiato anche io, considerando che in squadra abbiamo due positivi e siamo in quarantena in hotel”.
La giornata tipo?
“Ci alleniamo e poi torniamo in albergo. Questa è la vita della squadra, al momento. In attesa del prossimo tampone e della partita. L’impegno calcistico, poi, non è garantito. Può succedere che la gara venga sospesa se vengono riscontrati casi in un’altra società”.
Ora si sente meglio?
“Sì, mi sono ripreso dopo un paio di giorni senza tanti problemi. E già mi sto allenando con il resto del gruppo. Ci prepariamo con professionalità al prossimo impegno, anche se non è sempre facile concentrarsi solo sul calcio”.
Però, almeno, siete controllati.
“Non c’è dubbio. Siamo fortunati su questo. Se prendiamo il virus, lo sappiamo immediatamente. Cosa che un lavoratore normale non può avere. Non subito, almeno”.
Spostiamo l’attenzione sui ricordi, allora. Cosa le è rimasto di quella serata in Bulgaria con la maglia – nera – della Roma addosso?
“Una grande emozione, che provo ancora oggi a pensarci. Forse all’epoca nemmeno mi resi conto fino in fondo. Non posso dimenticare, mi chiamò mia madre a scuola per avvertirmi che sarei stato convocato dalla prima squadra e che mi sarei dovuto preparare. A dire il vero, però, non sono un malato di calcio. Non ero al corrente di quale partita avrebbe giocato la Roma. Così chiamai il mio procuratore per informarmi e mi disse che saremmo andati a Sofia per l’Europa League”.
Se l’aspettava di debuttare?
“Ci speravo. Avevo 17 anni, ad un certo punto nel secondo tempo il mister mi disse di scaldarmi. Non vedevo l’ora di entrare. Quando Ranieri si voltò verso di me, disse: “Vai, hai 9 minuti per fare gol”. Toccai tre palle, una la misi dentro. Ma ebbi anche fortuna”.
E dopo quella partita cosa accadde?
“Successe che andai in ritiro in estate con la Roma. Ma, al momento di capire dove andare a giocare, feci una scelta sbagliata. Lo posso dire tranquillamente dopo dieci anni”.
Andando a Como, intende?
“Sì, esattamente. A 18 anni, senza esperienza, in un club di C con giocatori maturi e affermati, magari convivendo con qualche problema societario, puoi fare fatica ad importi. A Como giocai poco e male”.
Crede che quella scelta le abbia condizionato la carriera?
“Senza dubbio. Sarei dovuto andare a crescere, facendo una gavetta diversa. In squadre di B o A dove avrei potuto imparare, con calma. Invece, l’ho accusata tantissimo. Sono passato dalle stelle alle stalle in un attimo. Solo negli anni ho iniziato a capire la categoria. E sono maturato. Ma ho attraversato momenti delicati, talvolta non riuscivo a stoppare una palla”.
Comunque, il professionista del calcio l’ha fatto e lo continua a fare.
“Vero, adesso ho raggiunto una maturità, sono un professionista in Serie C. Non sono mai stato fermo. Sono un ragazzo che lavora perché per me è un lavoro a tutti gli effetti. Non mi lamento”.
In una risposta precedente ha dichiarato: “Non sono un malato, un appassionato di calcio”. Possibile per uno che vive di questo sport?
“Non sono uno di quelli che sta a guardare che ha fatto la Roma o il Milan. Se becco una partita in tv, la guardo. Ma non sto appresso al calendario di campionato o di Champions. Tanti miei colleghi sanno tutto di chiunque. Io non sono quel tipo. Gioco a calcio. Faccio il professionista, vivo da atleta, è il mio lavoro. Però cerco di pensare anche ad altro. E posso dirle di più…”.
Prego.
“Non tifo, ormai. Da piccolino ero della Lazio, ma era una passione tiepida. Come ho iniziato a giocare per la Roma, ho smesso di tifare per chiunque. Come facevo a pensare alla Lazio se mi allenavo a Trigoria con Totti e De Rossi? Per questo, accantonai questo discorso e pensai di fare solo il calciatore. Già da parecchi anni è così. Se uno mi chiede di che squadra sono, rispondo di nessuna”.
Non ha visto Milan-Roma, ad esempio?
“L’ho vista, ma non ho esultato ai gol della Roma. Commento, analizzo, quello che accade. In particolare studio i movimenti degli attaccanti come me”.
Dzeko può essere una materia di studio vasta e interessante.
“Dzeko è un attaccante formidabile. Tra i migliori in circolazione in Italia, se non il migliore. Ha tutto: velocità, tecnica, destro, sinistro. Da piccolo ero innamorato di Vieri. Mi rivedevo un po’ in lui. Con caratteristiche diverse”.
Prima ha anche menzionato sua madre, Fiorenza Marchegiani, attrice affermata. Lei ha mai provato a farle intraprendere un mestiere diverso? Magari proprio nell’ambito cinematografico?
“Magari avrebbe voluto, mi avrebbe anche aiutato. Ora lei è in pensione. Però io ho sempre voluto giocare a pallone e vivere di calcio”.
Rimarrà in questo mondo una volta che smetterà?
“Vediamo. Sicuramente non farei mai l’allenatore. So troppo bene le dinamiche di spogliatoio e cosa dicono i calciatori degli allenatori. Però mi auguro di giocare altri sette anni, per guadagnare dei soldi. Come detto già, è il mio lavoro”.
A quanto ammonta uno stipendio medio di un giocatore del suo livello in C?
“Tra i 30mila e i 50mila euro. Cifre importanti per un normale cittadino, ma decisamente inferiori rispetto alla Serie A. Io, comunque, non mi lamento. Vivo di calcio e sono fortunato”.
"Vivo di calcio, ma non sono un appassionato come tanti miei colleghi"
- Filippo Scardina
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