Serie A, Domenica, 24 NOV, 18:00 CET
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    Questo sono io, Diego Perotti


    Ecco cosa ci ha raccontato in questa intervista presentata da Manpower Group.

    Chi era Diego da bambino?

    “Da bambino ero molto attivo, già da piccolo mi piaceva giocare sempre con la palla. Ho fatto molti sport, mia mamma è insegnante di nuoto quindi ho iniziato con il nuoto e già a quattro anni giocavo a calcio, non riuscivo mai a stare fermo, neanche per guardare la tv, preferivo sempre fare qualcosa in movimento. Ho praticato anche basket e pattinaggio”.

    Dove sei cresciuto?

    “Sono cresciuto a Moreno, una periferia a Est di Buenos Aires. Vent’anni fa era un posto tranquillo, oggi la mia famiglia e i miei amici abitano ancora lì e ogni anno vado a trovarli. Oggi è diventata una zona abbastanza pericolosa. È peggiorata rispetto a quando ero bambino, come tutta l’Argentina”.

    Gli sport che hai praticato li facevi con i tuoi amici o a scuola?

    “Basket l’ho praticato per otto anni, dai 4 ai 12. Facevo martedì e giovedì basket, lunedì mercoledì e venerdì calcio. Sabato giocavo la partita di calcio e domenica quella di basket: avevo tutta la settimana occupata. In più c’era il nuoto sin da piccolo. Mia mamma mi ha messo in piscina quando avevo 15 o 20 giorni e già quando avevo due anni riuscivo a nuotare da solo, poi quando a quattro anni ho iniziato calcio e basket ho smesso di fare nuoto, però ho fatto tanti diversi sport nella mia vita”.

    A scuola come andavi?

    “A scuola andavo bene perché potevo fare quello che volevo dopo scuola solo se andavo bene. Dovevo almeno far vedere a mia mamma che studiavo, altrimenti mi avrebbe tolto lo sport che per me era fondamentale. Su questo aspetto lei era molto dura”.

    Che sport seguivi da piccolo?

    “Seguivo il calcio. Il basket mi piaceva moltissimo da giocare ma non sono mai riuscito a vederlo in tv, non mi divertiva. Invece il calcio lo guardavo già da piccolo, soprattutto le partite del Boca e quelle importanti dell’Europa. Conoscevo quasi tutti i giocatori, il calcio mi è sempre piaciuto. Poi seguivo la Nazionale. I Mondiali che ho vissuto si giocavano in Europa quindi mi svegliavo presto o rimanevo sveglio per vedere la partita e a scuola mi portavo la radio per sentirle. Il primo Mondiale che ricordo è quello in Francia del ‘98, avevo dieci anni. Quello che mi è piaciuto di più, anche se l’Argentina è andata malissimo, è quello del 2002 in Corea e Giappone. Il fuso orario era sfavorevole, però è stato bello anche per quello, facevamo serata con gli amici o magari ci svegliavamo presto per una partita. L’Argentina è uscita ai gironi ma è stato bello”.

    Chi era il tuo idolo?

    “Román Riquelme. Quando sono entrato nel Boca avevo dodici tredici anni e lui stava cominciando a giocare in prima squadra, mi sono innamorato subito. Ho provato sempre a fare le sue giocate, anche adesso ogni tanto quando non riesco a dormire e mi metto a guardare i video su YouTube finisco sempre su qualche sua partita o giocata. Al di là dei fenomeni che ci sono oggi, tra quelli ‘normali’ per me è stato il migliore di tutti”.

    Qual è stato il passaggio dal praticare tanti sport al concentrarti sul calcio?

    “Ho sempre saputo che il calcio era il mio preferito. A basket ero bravo ma lo sport più importante, che mi divertiva di più, che mi faceva emozionare era il calcio. Volevo diventare un calciatore a tutti i costi, ci sono riuscito perché non ho mollato. Quando ero al Boca quasi non giocavo, dopo due anni mi hanno mandato via. Sono andato in diverse squadre a fare la prova e non sono rimasto, non ho avuto un percorso facile. Poi sono arrivato al Deportivo Morón, una squadra di Serie C, e ho iniziato la mia carriera. Sono arrivato lì pensando che almeno avrei giocato e poi ringrazio per tutto quello che è avvenuto. All’epoca pensavo di accontentarmi di entrare in campo in Prima Squadra, che fosse Serie A, B o C volevo sentire quell’emozione e non ho mai mollato”.

    Volevo diventare un calciatore a tutti i costi, ci sono riuscito perché non ho mollato

    - Diego Perotti

    Anche tuo padre era calciatore...

    “Sì, e finché sono stato al Boca l’ho vissuta come una pressione perché sembrava che stessi lì solo per il fatto che lui fosse al Boca. Quando giocavo con i miei amici e pensavo di essere un fenomeno, poi quando sono andato al Boca a fare il provino mi sono reso conto che mi confrontavo con amici che non sapevano stoppare la palla. Al Boca le cose si sono equilibrate, tanti erano più forti di me, soprattutto nel fisico, io ero molto piccolo. Qualcuno diceva che ero entrato al Boca solo grazie a mio padre. Per due anni ho sentito dire queste cose e alla fine, dato che non giocavo molto, ci ho anche un po’ creduto. Quei due anni sono stati duri ma per me è sempre stato un piacere quando riconoscevano mio padre per strada o quando dicevo come mi chiamavo e si ricordavano di lui”.

    Quando hai capito che, dalla Serie C, saresti potuto salire di livello?

    “Quando ho iniziato a giocare al Deportivo Morón l’allenatore della prima squadra mi ha fatto fare il ritiro con loro, mi hanno fatto il contratto da professionista. Non ho mai pensato di poter giocare all’estero, non pensavo che avrei mai giocato in Serie A. Poi nel 2007 sono andato al Siviglia B e lì ho iniziato a giocare contro diversi giocatori forti. Non credevo di essere pronto per quei livelli e invece dopo un anno, a 21 anni, sono entrato in pianta stabile in prima squadra e ho giocato quasi tutto il finale di stagione. A me sembrava un sogno, le cose mi riuscivano da sole, giocavo tranquillo, a volte l’ingenuità, il non pensare troppo, aiutava. Ora sono più grande, più esperto, ma i pensieri, la pressione che mi metto addosso prima non ce li avevo. Lo soffro più ora è rispetto a 10 o 12 anni fa quando ho iniziato. L’unica cosa che volevo era diventare calciatore, poi tutto quello che è venuto è stato inaspettato”.

    Il passaggio dall’Argentina all’Europa come l’hai vissuto?

    “Molto positivamente, tutto andava migliorando sia a livello calcistico, sia a livello economico, ho sempre avuto la fortuna di stare in città molto belle. Siviglia per me è una delle città più belle al mondo, le manca soltanto il mare per essere la più bella. Poi sono andato a Genova e a Roma, ho avuto questa fortuna di non soffrire il freddo della Russia o i giorni grigi di Londra. Per me è stato un passaggio molto semplice, a Siviglia la lingua era la stessa. Anche se ero giovane, avevo 18 anni, sono andato a vivere da solo, questo mi ha aiutato tanto a crescere. In Europa ho iniziato a guidare la macchina, a cucinare, sono maturato, mi è servito tutto. Per me è stata una gioia, anche se ero lontano dalla mia famiglia”.

    L’Argentina ti manca?

    “Molto, non sono mai riuscito ad abituarmi completamente alla lontananza. Quando la mia famiglia viene a trovarmi il sapere che ripartiranno mi dispiace, per tante cose: perché mia mamma non vede i miei figli o li vedono troppo poco, poi gli anni passano tutti invecchiamo. Sono già 12 anni che sono fuori e ho una mia famiglia ma ancora non riesco ad abituarmi a questa lontananza e penso che non mi abituerò mai, quindi ogni volta che posso torno lì”.

    Per due anni ho sentito dire che ero entrato al Boca solo grazie a mio padre. Dato che in quel periodo non giocavo molto, ci ho anche un po’ creduto

    - Diego Perotti

    Quando smetterai di giocare tornerai in Argentina?

    “Ho sempre pensato di sì, però la verità è che l’Argentina sta diventando così poco sicura che per i miei figli forse non sarebbe un bene. In fondo io ho già vissuto, mi sono divertito quindi non è una preoccupazione per me. Ma se posso dare ai miei figli una vita più tranquilla, dove possono andare in biciletta o andare a giocare a calcio senza avere il pensiero che qualcosa di male può accadere, mi sentirei egoista a tornare in Argentina solo perché ho gli amici lì. Loro sono piccoli, sono cresciuti qui. Non ho ancora deciso ma penso che alla fine rimarremo qui”.

    A proposito dei tuoi figli, ti piacerebbe se continuassero la tradizione da calciatori?

    “Sì, mi piace già. Il più grande è pazzo del calcio, gli piace tantissimo, gioca tutti i giorni, ha sempre la maglia della Roma, canta l’inno. Quando viene a vedere le partite sta seduto due ore, anche in tv. Ha una passione veramente simile a quella che avevo io, poi ovviamente tra 15 anni chissà cosa vorrà fare, ma mi piace il fatto di condividere quell’emozione, queste cose qui mi rendono troppo felice. Poi farà quello che vuole, ma condividere questa passione mi rende orgoglioso”.

    Che consiglio daresti ad un giovane che si avvicina al calcio?

    “Per quello che ho vissuto io la cosa più importante è non arrendersi mai, neanche nei momenti più difficili. Ho vissuto veramente momenti molto duri, in cui pensavo di non poter arrivare al mio sogno, gli anni passavano, altri compagni andavano meglio di me e io ero abbastanza indietro, però la voglia di seguire quella passione mi ha fatto continuare, mi ha aiutato a non smettere nei momenti bui. Bisogna sognare ma anche lavorare, pensare positivo. Ci saranno giocatori che saranno più forti già da piccoli e avranno un percorso più semplice ma la cosa più importante è non mollare, dare sempre il 100%, alla fine facendo le cose giuste il risultato arriva”.

    C’è qualcuno che ti ha aiutato particolarmente per arrivare a questo livello?

    “La mia famiglia mi è sempre stata vicina. Mia madre mi accompagnava in tutti campi della periferia di Buenos Aires, e non era molto sicuro per una donna, andavamo noi due da soli. Lei è sempre stata molto chiara con me: se volevo fare il calciatore dovevo continuare, ma se sentivo che mi faceva stare male non era un fallimento. Ma era quello che volevo fare, dovevo andare avanti”.

    Venendo all’attualità, com’è lavorare con Paulo Fonseca?

    “È bello. Ora che tre quarti della mia carriera sono passati inizio a vedere il calcio in un’altra maniera, più vicina a quella di un allenatore. Ci sono tanti concetti che se un giorno diventassi allenatore vorrei trasmettere e li sto vivendo adesso con lui e su questo punto sono molto contento. È molto diretto, riesce a fare arrivare il suo messaggio in maniera chiara. Punta molto sul possesso palla, più tempo la teniamo noi meno l’avversario può farti male. Agli esterni chiede un gran lavoro per un’idea di calcio offensivo e concreto che a noi giocatori piace molto. È molto onesto, chi sta meglio gioca, chi non sta bene deve conquistarsi il posto”.

    Come si è evoluto il rapporto con lui nel periodo di stop?

    “Ci ho parlato molto al telefono. Pochi giorni prima della quarantena ero pronto per rientrare dall’infortunio e lui ha seguito il mio lavoro. Si interessa sempre di come stanno i bambini e la mia famiglia, ha un rapporto molto diretto con noi. Questo buon rapporto che instaura con i giocatori però non significa che poi non pretenda tanto in allenamento. Non avere un contatto quotidiano con la squadra non è semplice, né per noi né per lui ma ce l’abbiamo messa tutta. Ora per fortuna c’è la possibilità di uscire di casa e di proseguire con l’allenamento individuale a Trigoria e questa è una cosa molto positiva”.

    Tu come ti sei trovato ad allenarti da solo?

    “Io fortunatamente abito in una villa e quindi ho avuto lo spazio e tutto l’occorrente per potermi allenare bene. Ho anche una piccola palestra che ho sfruttato molto in questo periodo. Non è stato semplice e non è lo stesso senza la palla ma penso di aver migliorato la mia condizione fisica”.

    A livello psicologico è stato faticoso?

    “Non posso assolutamente lamentarmi. In questo periodo ci sono tante persone che hanno sofferto di più, magari per la perdita del lavoro in conseguenza dello stop delle attività. Io non mi posso lamentare, ho fatto il massimo possibile per lavorare sulla mia condizione e sarei ipocrita a dire che l’ho vissuta male”.

    Anche passare tanto tempo con la famiglia ha aiutato?

    “Sicuramente abbiamo fatto cose diverse rispetto al solito ma sono sempre consapevole che noi calciatori abbiamo anche normalmente degli orari che ci permettono di passare tanto tempo con la famiglia. In questi mesi però ho avuto modo di vivere in maniera diversa i miei figli, soprattutto quello più piccolo. Come papà ho approfittato di questa vicinanza più continua”.

    Quanto ti manca il calcio?

    “Tantissimo. È quello a cui siamo abituati da sempre. Gioco a calcio da quando sono piccolo, è tutta la mia vita, neanche in vacanza siamo stati lontani per così tanto tempo dai compagni e dal pallone. A parte qualche partita in giardino con mio figlio, la palla non l’ho mai vista e mi manca. Già poter rientrare a Trigoria, correre in un campo, in uno spazio aperto è un’altra storia”.

    Come ti avvicini alla possibile ripresa della stagione?

    “Come calciatore voglio tornare a giocare e continuare questa stagione. È giusto cercare tutte le condizioni per poter giocare a calcio in sicurezza e spero che venga trovato un accordo. Lo dico senza dimenticare tutte le vittime di questo coronavirus e tutte le famiglie messe a dura prova in tutto il mondo da questa pandemia anche dal punto di vista della mancanza del lavoro”.