Questo è Edin Dzeko.
Partiamo dall’inizio. Da dove pensi sia nata la tua passione per il calcio? È stata naturale? Ti ha spinto a giocare tuo padre?
“Mio padre ha giocato nelle leghe inferiori bosniache, quindi è possibile che questo abbia influito. Ma non dimentichiamoci che all’epoca, quando ero piccolo, la Bosnia era in guerra. Quindi ho iniziato a giocare abbastanza tardi, dopo la fine del conflitto, quando mio padre ha iniziato a portarmi a giocare. Se non sbaglio avevo nove anni e mezzo, forse dieci, quando mi ha portato a fare i primi allenamenti. E ho anche iniziato a guardare alcune delle sue partite, cosa che prima non potevo fare, a causa della guerra. Penso che il calcio sia qualcosa di genetico, che tutti volevamo praticare. Tutti i bambini amano correre dietro a un pallone. Per me, tutto è iniziato lì”.
Eri consapevole del fatto che fosse in corso una guerra oppure i tuoi genitori ti hanno protetto da questo avvenimento?
“Ne ero decisamente consapevole. Sapevo cosa stava accadendo. Ma fa parte del passato. Non voglio parlarne ora. Ovviamente ero molto piccolo, avevo sei anni. Ma, sebbene ne fossi consapevole, la guerra era probabilmente una circostanza molto, molto più dura per i miei genitori e per tutti gli altri adulti. I bambini vogliono semplicemente giocare e magari a volte non si rendono conto del pericolo che li circonda”.
Quando hai iniziato a giocare, hai sempre pensato che saresti finito a fare l’attaccante?
“All’inizio, ovviamente, quando hai dieci anni e stai cominciando a praticare questo sport ti fanno giocare un po’ dappertutto. Con il tempo iniziano a trovarti un ruolo, quello che pensano sia più adatto alle tue caratteristiche. Io segnavo in continuazione. Per questo motivo mi hanno fatto giocare attaccante. A volte giocavo come esterno alto di destra, ma quello che cercavo sempre di fare era trovare un modo per segnare”.
Pensavi che avresti avuto successo?
“A essere sincero, non ci pensavo. Ovviamente tutti sognano di diventare qualcuno e di raggiungere qualcosa, ma quando sei piccolo non pensi a troppi scenari futuri. Magari mi sarò sognato qualcosa del genere, ma all’epoca non immaginavo nemmeno che potesse diventare un lavoro. Quindi in realtà non ci facevo molto caso”.
Ma alla fine è diventato possibile. E presto hai iniziato a giocare da professionista in Bosnia. Quando hai iniziato a pensare che, forse, eri sufficientemente bravo da poter avere non solo una buona carriera nel tuo Paese, ma che avresti potuto anche ambire a giocare all’estero?
“Ci sono alti e bassi, soprattutto quando sei giovane. Nel mio Paese i giocatori più grandi avevano un ruolo importante. Ti dicevano sempre “sei ancora giovane…” e in quei casi non era semplice trovarsi delle opportunità. Guardando al passato non saprei, forse all’epoca non ero abbastanza forte, o magari lo ero, ma hanno puntato sui più grandi. Per me è stato molto importante trasferirmi in Repubblica Ceca assieme all’allenatore che avevo avuto anche in Bosnia al Jiri Plisek. Si è trasferito e dopo qualche mese mi ha chiamato e io ho subito accettato, perché sapevo che da lui avrei potuto imparare molto e che sarei migliorato, anche perché sarei andato via di casa e avrei vissuto in un Paese nuovo. Questa esperienza mi ha dato sicuramente l’opportunità di migliorare e di lavorare”.
È stata la prima volta che sei andato via da casa? Quanto è stato difficile?
“Sì, avevo diciannove anni, forse diciotto e mezzo. Penso fosse l’estate del 2005. E sì, era la prima volta che andavo via di casa per un periodo prolungato. Non è stato semplice, né per me né per i miei genitori, ma è la vita. Andando via di casa sono diventato un uomo, perché ho dovuto fare i conti con così tante cose a cui prima non avevo mai pensato”.
Poi ti sei trasferito in Germania, al Wolfsburg. Sembra che la tua carriera sia stato un percorso di crescita graduale. C’è stato un momento in cui hai pensato di aver fatto il passo più lungo della gamba? Ti è sembrato così, all’epoca?
“Probabilmente sì. Lo è stato perché la Bundesliga è uno dei cinque migliori campionati d’Europa. Quando sono andato lì, sono stato fortunato ad avere un allenatore, Felix Magath, che ci spingeva sempre a dare il massimo, fino al limite, a volte anche oltre. Ci allenavamo davvero duramente. È stata una lezione importante per me. E mi piace veramente pensare che sia stato un percorso graduale. Sempre un passo alla volta. Ero in Bosnia e sono andato in Repubblica Ceca. Quindi ho fatto un altro passo e mi sono trasferito in Germania. Quando pensavo di non essere sicuro di poter fare quel primo passo, ecco che ne avevo fatto un altro. Non sono andato direttamente in Premier, ma ho avuto bisogno di fare determinate esperienze per migliorare. E poi al Wolfsburg ho avuto l’allenatore giusto, la squadra giusta, ero nella società giusta in quel momento. Tutto si muoveva nella direzione giusta”.
Il Wolfsburg campione di Germania nel 2009 viene ricordato come una squadra molto forte e offensiva, ma col senno di poi Magath non è noto per prediligere un calcio offensivo. Cosa rendeva quella squadra così efficace?
“Innanzitutto eravamo al massimo della forma. Fisicamente, eravamo pronti ad affrontare chiunque. E avevamo molti giovani, anzi la maggior parte dei giocatori erano giovani, c’erano solamente due o tre veterani. Ma la base era formata da giocatori giovani che avevano qualità e che correvano moltissimo. Giocavamo sempre con lo stesso modulo, con due attaccanti in un 4-3-1-2. E per quella squadra era perfetto, abbiamo fatto una cavalcata impressionante e alla fine abbiamo vinto il titolo. Ma vorrei sottolineare che non abbiamo vinto per caso”.
Non è stato un caso?
“No, ce lo siamo meritato. Vincevamo contro chiunque. A volte riuscivamo a segnare cinque gol contro squadre forti. È stato assolutamente meritato”.
È sembrato che in quel momento tutti i pezzi si incastrassero alla perfezione.
“Certamente. Poi ci vuole sempre un po’ di fortuna, ovviamente. Ma avevamo sicuramente degli ottimi giocatori e un ottimo allenatore. E poi non c’era così tanta pressione. All’inizio il nostro obiettivo non era quello di vincere il campionato. Era di finire tra le prime quattro e qualificarci per la Champions League. Ma quando si avvicina la fine del campionato e sei ancora in lizza, fai di tutto per vincerlo. Ed è quello che ho fatto”.
Poi sei andato al Manchester City, un periodo sul quale ti vengono fatte molte domande. Anche lì hai vinto il titolo. Che differenze ci sono tra le due vittorie? C’era sicuramente molta pressione al City in quel periodo…
“Anche perché il City era da molto tempo che non vinceva praticamente nulla. Quando ero al Wolfsburg nessuno si aspettava che potessimo vincere il campionato e ce l’abbiamo fatta. Al City, tutti si aspettavano che vincessimo qualcosa, prima o poi. Avevamo speso molti soldi, facendo arrivare grandi giocatori, ce n’erano davvero tanti. Era chiaro che ci fosse della pressione. Con calciatori di tale qualità, alla fine, siamo riusciti a vincere. L’abbiamo fatto due volte mentre ero lì. E in entrambi i casi la vittoria è stata più che meritata. Sebbene ci fossero molte aspettative e ci fosse molta pressione, abbiamo giocato un calcio offensivo e piacevole. A volte giocavamo con tre attaccanti. Non è semplice farlo e vincere con continuità”.
Come pensi che ti vedano i tifosi del City? Pensi che ora apprezzino di più quello che hai fatto quando giocavi a Manchester rispetto all’epoca?
“Forse mi apprezzano di più ora rispetto a quando giocavo lì. Quando giochi in una squadra, le persone rischiano di abituarsi. Le cose possono cambiare, se giochi bene in una partita e se, magari, in quella successiva giochi male. Dipende quasi sempre dai risultati della squadra. Poi, quando vai via…è come con una ragazza, solamente quando se ne va capisci quello che avevi e che non avrai più! Ma credo che mi apprezzino di più ora rispetto a quanto non facessero quando ero lì. Anche se devo dire che i tifosi del City mi hanno sempre sostenuto quando giocavo con la loro maglia e penso di aver fatto bene in quei quattro anni e mezzo. A un certo punto è arrivato il momento di cambiare. Ma sento ancora, a volte, i tifosi del City cantare il mio nome e a volte qualcuno mi scrive dicendo che sono una leggenda. Fa piacere”.
In quel periodo il City ha avuto molti attaccanti e pochi sono stati efficaci quanto te, soprattutto quando quasi tutti erano chiamati ad agire vicino a Sergio Aguero.
“C’erano sempre quattro attaccanti di alto livello. Non potevamo giocare sempre tutti e per questo motivo non ero sempre contento, ma se in una squadra c’è così tanta qualità, è una battaglia che devi essere sempre pronto a combattere. C’era Sergio, c’era Tevez…poi, in momenti diversi, ci sono stati Jovetic, Balotelli, Negredo, Adebayor, Bony: c’erano moltissimi attaccanti in squadra in quel periodo. C’era una buona intesa tra me e Sergio, penso ci completassimo molto bene a vicenda. Insieme giocavamo bene, la coppia formata da un attaccante più “piccolo” e uno più alto funzionava molto bene”.
Tornando a quello che hai detto a proposito del City, pensi che nel calcio funzioni così, in generale? Solamente con il tempo le persone apprezzano realmente quello che i giocatori hanno fatto per la propria squadra?
“Penso che a volte le persone non apprezzino appieno quello che fai fino a quando non te ne vai. Poi magari si rendono conto di quello che avevano e di quello che hai fatto. Si pensa sempre a quello che fai o che farai in quel momento. Questo è il calcio, funziona così”.
Passando alla Roma, qual è stata la tua prima impressione di Paulo Fonseca?
“È stata positiva. Fin dal primo giorno abbiamo lavorato duramente e quasi sempre con la palla, dettaglio positivo per noi giocatori. A noi giocatori piace, vogliamo avere sempre la palla tra i piedi e lui vuole sempre lavorare con il pallone. Per me è stato perfetto. Devo dire che ho iniziato a divertirmi sin da subito”.
Come sono andate le prime chiacchierate con l’allenatore? In estate molti giocatori, soprattutto i nuovi arrivati, hanno affermato quanto sia stato importante parlare con lui.
“Da come inizia a impostare la sessione di allenamento, si capisce subito che è uno che sa il fatto suo. Ci ha iniziato a trasmettere le sue idee in maniera positiva, è sempre disponibile a parlare, a confrontarsi. È quello di cui abbiamo bisogno. Penso che l’aspetto importante sia che Fonseca non è solamente un allenatore capace, ma è anche una persona onesta, aperta, caratteristiche che a volte sono difficili da trovare”.
Per i giocatori è importante avere un allenatore di cui si fidano. Aiuta molto.
“Certamente. È anche importante potersi divertire”.
È un fattore che ha inciso nella tua decisione di rinnovare il contratto questa estate?
“Sì, ci sono stati molti fattori, a dire la verità. La società, l’allenatore, i compagni, tutti. Ci sono stati molti fattori che hanno influito su questa scelta. Tutti mi hanno dimostrato quanto mi apprezzassero e quanto volessero che restassi. In fin dei conti, qui mi sono sempre trovato bene. La mia famiglia è felice qui, i miei figli sono nati qui, quindi sono stato felice di restare”.
Immagino che le scelte possano cambiare un po’ se a un certo punto entrano a far pare del quadro anche i figli e la famiglia.
“Certamente, perché non gira più tutto intorno a te. Quando ero più giovane, pensavo sempre a dove volessi andare io – era la mia carriera, erano le mie decisioni e io volevo crescere. Non giocherò a calcio per tutta la vita, quindi inizio a fare delle scelte anche da quel punto di vista e poi, con una famiglia, penso anche a cosa potrebbe servire a loro. Ora le decisioni che mi riguardano sono quasi sempre le meno importanti. Bisogna valutare le cose in maniera più ampia. È normale, è così per gran parte delle persone. La mia famiglia è molto felice qui. Qui stiamo bene”.
Parlando da giocatore, pensi che il rinnovo significhi che questo sarà il posto in cui definirai quello che sarà il tuo lascito nel mondo del calcio? Nel senso che quando le persone penseranno a Edin Dzeko in futuro, la prima squadra a cui penseranno sarà la Roma?
“Ho firmato per altri tre anni. Quindi se giocherò qui per altri tre anni, avrò giocato per sette anni in questo club. Sarà il periodo più lungo trascorso nella stessa squadra. Sarà la squadra con cui avrò segnato più gol, la squadra con cui avrò collezionato più presenze. E, ovviamente, la squadra con cui avrò vinto di più, spero. È sempre questo l’obiettivo. Penso che quest’anno abbiamo ingaggiato alcuni giocatori forti, esperti, in grado di aiutarci sin da subito. È un fattore importante. Quando i giocatori sono pronti a giocare e a dare battaglia sin dalla prima partita, significa che potrai lottare per i diversi obiettivi, che per noi sono l’Europa League, la Coppa Italia…e la qualificazione alla prossima Champions League, cosa che purtroppo non siamo riusciti a fare la scorsa stagione”.
Tieni particolarmente ai riconoscimenti individuali? Sono importanti per te? Ad esempio, ti manca poco per diventare il settimo giocatore ad aver segnato 100 gol con la maglia della Roma. A fine stagione potresti addirittura diventare il terzo miglior marcatore nella storia del club. Diciamo che sei in una buona posizione per guadagnarti un ruolo di spicco nella storia di questo club…
“Penso si possa dire che è qualcosa a cui ho pensato quando ho dovuto decidere sul mio futuro. In fin dei conti, non gira sempre tutto attorno ai gol. Certo, sono un attaccante e vivo per fare gol, ma la cosa più importante è vincere. Quest’anno dobbiamo essere più continui rispetto alla scorsa stagione se vogliamo raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. Con i giocatori esperti che abbiamo, spero riusciremo a esserlo. Oltre a questo, vedremo cosa succederà a livello di gol. Mentirei se dicessi che non penso a raggiungere quota 100".
I traguardi che potresti raggiungere ti rendono forse ancora più orgoglioso, visto come sono iniziate le cose per te qui?
“Nel calcio le cose possono andare così, ci sono sempre alti e bassi. La cosa importante è non arrendersi mai. Se mi fossi arreso dopo il primo anno, non avrei fatto quello che ho fatto dopo. Sono cose che succedono: ci sono le partite negative, le settimane negative e anche i mesi negativi. Mi era successo anche prima. Ma quando succedono queste cose, dipende solo da te: sei tu che devi decidere come reagire. Io ho provato a mostrare le mie vere qualità e sono riuscito a farlo nella stagione 2016-17 e in quelle successive. Spero che le cose andranno ancora meglio nei prossimi anni, perché mi sento bene. Fisicamente sto bene. È importante e spero di continuare così, perché voglio continuare a crescere come giocatore”.
Pensi che il tuo ruolo all’interno della squadra sia cambiato, dentro e fuori dal campo? Ora sei uno dei leader, un mentore per i ragazzi più giovani.
“Sono uno dei più anziani ora, assieme ad Aleks [Aleksandar Kolarov], Fede [Federico Fazio] e Antonio Mirante. Ovviamente dobbiamo essere un esempio per i più giovani, anche se oggi non è più così semplice. Ma noi cerchiamo di aiutarli e di portarli sulla strada giusta. Vogliamo aiutarli ad affrontare le situazioni nella maniera corretta, perché abbiamo bisogno di loro: ogni giocatore, in ogni ruolo, può essere importante per noi in questa stagione, per raggiungere gli obiettivi. Dobbiamo lavorare tutti insieme”.
Ci sono aspetti dell’essere un giocatore professionista che ora conosci ma che avresti voluto conoscere prima, quando eri più giovane?
“Penso che questo faccia parte del processo di crescita. Ovviamente ci sono cose che non si possono sapere, così come non le sapevamo noi, quando eravamo più giovani, in un'epoca in cui non c'erano ancora i social network. Anche allora mi ricordo che alcuni giocatori mi dicevano: “Un giorno capirai cosa significa l’esperienza per un giocatore”. E io pensavo: “Cosa?! L’esperienza? Cos’è? A cosa serve?!”. Ma fino a quando non lo vedi e non lo provi, non puoi capirlo. Ma ogni partita, ogni allenamento, ti insegna sempre qualcosa. Penso sia importante che i giovani vedano i più anziani dare sempre il massimo, come magari hanno fatto negli ultimi venti anni. Ma è un processo di crescita che ogni giocatore affronta”.
Questo impegno da parte di tutti è ancora più importante per te, ora che cerchi di far fruttare al meglio gli ultimi anni della tua carriera?
“Sì, certamente. Come ho detto, non giocherò ancora per dieci anni. Forse potrei farlo, ma non sarebbe semplice e sicuramente non potrei giocare sempre ai massimi livelli. Ho ancora qualche anno davanti e voglio dare tutto e fare tutto il possibile. È importante restare in forma ed evitare gli infortuni. Io darò il massimo e cercherò di far sì che questa squadra raggiunga i propri obiettivi. Penso che abbiamo la qualità per provare a farlo nei prossimi anni. Dobbiamo solamente essere più continui e aiutarci a vicenda”.
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