Classe 1983 proprio come DDR, Farelli è stato professionista in diverse categorie, arrivando fino all’esordio in Serie A con il Siena. Nel 2020 diventa il terzo portiere giallorosso alle spalle di Pau Lopez e Mirante, in un’annata che vedrà la squadra di Fonseca qualificarsi alla semifinale di Europa League. Da qui parte il suo legame professionale con il Club.
Estate 2020: lei, 37enne, riceve una chiamata da Trigoria…
“Fu una chiamata inattesa, improvvisa. Volevano un portiere da mettere alle spalle dei primi due per permettere a Boer di giocare con continuità nel settore giovanile. Boer che poi è diventato il terzo portiere giallorosso nelle stagioni successive. Tra gli svincolati, scelsero me”.
Una bella cosa.
“Davvero grande. Rappresentò il coronamento di un lungo percorso, il sogno, il punto massimo dopo diverse stagioni di categoria. Era giusto finire la carriera con qualcosa di veramente bello. Proprio al termine di quella stagione lì, la società mi aveva comunicato che non avrebbe rinnovato il mio contratto da calciatore, ma che se avessi avuto in mente di allenare, per me ci sarebbe stato posto. E non ci ho pensato un attimo. Potevo anche continuare a giocare, il fisico me lo permetteva, ma la voglia di continuare a lavorare per questo Club è stata più forte di qualsiasi altra possibilità. Voglio ringraziare la Proprietà che mi ha permesso di iniziare questa professione e di poterla esercitare nella Roma. È il massimo”.
Smettere di giocare come è stato?
“Guardi, forse il fatto di aver giocato poco in alcuni momenti della mia carriera, facendo il secondo o il terzo, mi ha offerto dei punti di vista differenti. Non è stato traumatico, anzi. Una volta appesi gli scarpini al chiodo, ho subito messo la testa su questo lavoro. Mi sono ritrovato una serie di appunti che avevo messo da parte nel corso del tempo, che poi ho utilizzato per iniziare. Avevo sempre cullato l’ambizione di diventare preparatore dei portieri, prima o poi”.
Cosa era scritto su questi appunti?
“Mi ero segnato gli allenamenti che facevo. Le sedute più belle, gli esercizi a cui mi sottoponevo, anche le sensazioni fisiche che mi aveva lasciato. Tutte informazioni utili che poi mi sono ritrovato”.
Quale aspetto in particolare cerca di curare nella preparazione di un portiere?
“Sicuramente la tecnica di base. Con i maestri che ho avuto nel corso della carriera, ho potuto imparare proprio questo: l’aspetto tecnico del portiere permette all’atleta di mantenere costante la sua performance”.
E l’impatto fisico?
“Quello nel calcio di oggi è predominante, ma ad un certo punto conosce un’inevitabile parabola discendente. È la natura. La tecnica, invece, ti accompagna sempre nel percorso, dandoti certezze anche quando puoi incontrare problemi fisici o della sfera emotiva”.
A proposito di tecnica e fisicità, come nasce l’exploit di Svilar?
“Lui era un portiere che aveva atteso tanto la sua chance. Il più grande merito che ha è la perseveranza, la costanza. Non ha mai smesso un secondo di allenarsi al 100% e non ha mai smesso per un attimo di attendere con pazienza la sua chance, che poi ha avuto. Ancor più bello è il fatto che lui non abbia calato le sue aspettative per il futuro, tenendo alto il desiderio di allenarsi e migliorarsi costantemente”.
È ormai tra i portieri top della Serie A?
“Io sono di parte, preferisco non esprimermi, sarei scontato. Vedendolo in allenamento ogni giorno, gli auguro di diventare il numero uno in assoluto. Non solo del nostro campionato. Ha tutti i mezzi per arrivare a livelli altissimi”.
Con Ryan, invece, che rapporto c’è?
“Ryan può essere solo una fonte di arricchimento per me. Ha esperienza in diversi campionati europei, pur provenendo da un altro continente. Questo lo si vede in campo e nella sua esperienza. Con lui c’è un confronto quotidiano, ha una sete di sapere incredibile, ha tanta voglia di imparare e migliorarsi anche a 32 anni. La sua disponibilità al lavoro è pazzesca, nonostante abbia centinaia di partite giocate e tre Mondiali con l’Australia. Il fatto di aver giocato in Liga, in Premier, in Olanda, in Belgio, in Danimarca lo si vede da come agisce in campo e da come pensa. Ha grande capacità d’adattamento”.
Passando all’aspetto tecnico e di allenamento, su cosa vi confrontate quotidianamente con il mister?
“Ogni giorno parliamo e ci confrontiamo. Stiamo tanto tempo insieme tra noi dello staff, con grande piacere. Daniele vuole che il portiere sia sempre più integrato nel contesto squadra, partecipando alla costruzione e toccando tanti palloni ogni partita. E chiede attenzione sulla difesa dello spazio in area di rigore. Consegne che io cerco di trasferire ai ragazzi con il lavoro mio, specifico. Inoltre, fornisco anche informazioni sui portieri avversari o sulle palle inattive”.
Il suo ingresso nello staff di De Rossi come è nato?
“La società aveva proposto il mio nome, io lavoravo nel Club già da un po’. Lui, dopo aver preso le dovute informazioni, ha avallato la mia candidatura e si è comportato come fa sempre. Dandomi il cinque, dicendomi “sei dei nostri”, mettendomi subito a mio agio. Gli sarò per sempre grato per la fiducia che ha riposto nei miei confronti”.
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