Negli Anni 70 e per sempre è stata un’accelerazione spaziale dopo decenni di grigiore. Interstellar. Francesco Rocca è stata la nostra Aurora, il momento prima dell’alba della più grande Roma di sempre. Il chiarore che fa la differenza tra la notte e il giorno. “All’alba vincerò”, senza poter nemmeno andare a giocarsi il trionfo dopo una musica così solenne e struggente.
È stato il nostro sogno più ardito e bello perché i sogni muoiono prima del sole. Ma c’è stato. E la nostra coscienza deve farci i conti, non solo in termini di gratitudine e riconoscenza. Nessun dorma dopo, e nemmeno adesso. Le parentesi sono state solo provvisoriamente chiuse. Franco Tancredi ha detto che “lo Scudetto del 1983 lo abbiamo vinto anche grazie a Francesco, quell’anno non stava con noi, ma noi lo sentivamo”. Paulo Roberto Falcao nello spogliatoio di Genova nel 1983 nel titolo di coda di quel tricolore ci ha messo Francesco Rocca tra i ringraziamenti, Rocca che aveva ringraziato i tifosi dicendo addio contro l’International, la squadra di Falcao il 29 agosto 1981.
Francesco Rocca è una parentesi che non può essere chiusa con una coincidenza. Francesco Rocca è stato l’idea di quella Roma diversa, nuova, con la maglia della Pouchain e il lupetto stilizzato e che lui – che il vecchio stemma ce l’ha nella faccia e nelle cicatrici sulle gambe – ha fatto appena in tempo a indossare. È come se fosse stato una staffetta tra quello che c’era prima di lui e tutto quello che sarebbe arrivato dopo di lui, un testimone, sicuramente scomodo, un ponte che troppi hanno calpestato.
Francesco Rocca ha dato alla Roma una gamba. Fa effetto. Faceva male. Gli fa male. Era questo Rocca: una promessa già mantenuta. Francesco Rocca era anni a venire. Il nostro bel tempo, la bella compagnia. Il nostro ragazzo coi piedi per terra, solido e quadrato, che veniva dal Bettini Quadraro, proiettato invece adesso nel racconto come un qualsiasi eroe bruciato.
C’hanno messo comunque anni a spegnerlo. Si è fatto male a 22, si è ritirato a 27, in mezzo solo cinquanta presenze con la Roma lui che giocava sempre e che dall’estate del 1981 non ha giocato più. In mezzo dolore, rientri, speranze, dolore, dolore, rientri, dolore, illusioni, interventi, parole, dolore. L’Equipe il giorno del ritiro scriverà questa cosa: «L’infortunio di Rocca è stata la iattura più grande che sia capitata al calcio italiano dopo Superga». In mezzo l’amore per la Roma e una notte. Una nota.
Il 30 maggio 1984 chiamato da Antonio Bongi – uno dei fondatori del CUCS – Francesco Rocca scavalca e va in Curva Sud non a vedere la finale di Coppa dei Campioni Roma-Liverpool, ma a tifare la Roma nella finale della Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Sul muretto. In piedi. Col megafono. A lanciare i cori, a spronare i ragazzi, per la Roma. Per la Roma. Per la Roma. Francesco Rocca era in Curva Sud con gli ultrà nella notte più profonda della nostra vita. Francesco Rocca con il ginocchio che gli faceva male.
Il ragazzo che a vent’anni s’era preso già tutto e che a ventisette aveva dovuto ritirarsi, il nostro rimpianto, la nostra assenza, il nostro infortunio, quella notte ha guidato la Roma nella partita più importante della sua storia, nella maniera più romanista possibile.
Non si è mai ritirato Francesco Rocca dall’essere se stesso. Io credo che quando vinceremo la cosa più grande dovremmo fermarci e fare scendere una volta ancora in campo Francesco Rocca per fargliela alzare. Glielo dobbiamo per quanto ha sofferto, per come si è comportato, per quanto ci ha provato, per come ha onorato la Roma in campo, in allenamento e ancora oggi, ingoiando rabbie e parole che qualsiasi essere umano farebbe difficoltà a non urlare.
Il giorno dell’Hall of Fame, quando è stato chiamato per il giro di campo, lo speaker ha detto che ritornava all’Olimpico dopo trentuno anni, in pochi lo sapevano, ancora in pochi lo sanno, che Rocca stava in Curva Sud quella notte. È entrato, ha guardato solo la Sud, ha applaudito con le braccia sopra la testa, poi si è raccolto in una smorfia di commozione, ha stretto la mano destra in un pugno e se l’è stretta al cuore guardandola. Credo significhi ti amo.
Tonino Cagnucci
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