Per tanti motivi. Tecnici e motivazionali. Una squadra reduce dalla delusione di uno scudetto perso in casa con il retrocesso Lecce alla penultima giornata, si ritrova a concludere la stagione in Coppa Italia con una buona fetta dei titolari in nazionale per il Mondiale in Messico.
Il tecnico giallorosso, Sven Goran Eriksson, si affida ad una squadra giovane, con diversi elementi del vivaio romanista, più Roberto Pruzzo e Francesco “Ciccio” Graziani a fare da veterani. Uno di loro è Stefano Impallomeni. 18 anni, allora. Oggi giornalista e volto di Roma TV. “Facemmo una sorta di impresa, in un momento storico particolare”, dice.
Che successo fu per la Roma?
“Secondo me una cosa irripetibile. Una coppa nazionale vinta con una banda di giovani in campo. Noi andavamo a giocare le partite con il sorriso sulle labbra, scanzonati. A scommettere su noi stessi. Senza grandi obiettivi, né aspettative. Ma ci riuscimmo. La vincemmo”.
Quale fu il segreto di quell’alchimia?
“Era una squadra che si muoveva dentro un impianto di gioco prestabilito, che funzionava. Anche con diversi interpreti da quelli titolari. E poi c’era un fattore che contribuì a rendere magica quell’affermazione”.
Ovvero?
“Era una squadra romanista. Romanista per davvero. Lo eravamo tutti. Affrontavamo gli avversari con il tremila per cento di impegno, di voglia. E la gente capii quel sentimento che muoveva questo gruppo. Per esempio, dopo la finale di ritorno vinta con la Sampdoria, la fiaccolata finale fu bellissima. Emozionante. La squadra aveva saputo trasmettere qualcosa ai tifosi”.
Cosa, in particolare?
“L’attaccamento, l’amore per quella maglia, senza retorica. Fu così. E più di tutti fu felice il presidente Dino Viola, che quasi vide realizzato il suo sogno”.
Quello di avere una squadra con una larga connotazione territoriale.
“Esatto. Era un suo cruccio, un pensiero fisso. Lì c’erano 7-8 giocatori dal vivaio. Viola di questo fu particolarmente orgoglioso. Il massimo per lui sarebbe stato quello di creare una Roma vincente con 11 giocatori del settore giovanile, romani e romanisti. Quella Coppa Italia fu quasi il coronamento di quell’idea”.
Vinta contro la Sampdoria di Roberto Mancini. E non solo.
“La Samp si stava strutturando per diventare grande, verso lo scudetto del 1991. Perdemmo la partita di andata in trasferta 2-1, ma avremmo meritato noi. Al ritorno li battemmo 2-0. Era una Sampdoria all’inizio di quel ciclo di successi, tanto che poi sarebbe arrivata a conquistare il campionato con Toninho Cerezo a centrocampo”.
Cerezo, l’eroe di quella serata del 14 giugno 1986.
“Lui, come gli altri nazionali, era partito per quella parte finale di stagione con la sua nazionale. Ma poi non partecipò più al Mondiale. La prese male. Tornò a Roma in tempo per quella gara di ritorno e nei minuti finali – da subentrante – fece il gol che chiuse il discorso, con un colpo di testa vincente”.
Su assist/cross suo, di un diciottenne Impallomeni.
“Quello fu davvero un periodo magico per me e tutti noi compagni di squadra. A quell’età ti senti forte, spensierato, invulnerabile. Tenti la giocata, come in occasione di quel gol. Sono sicuro, se avesse segnato un altro al posto di Cerezo, se ne sarebbe parlato meno di quel gol. Invece, quell’episodio è nella memoria di chi è veramente romanista perché riguardò Toninho. Lui dopo quella serata – nonostante avesse passato la trentina – entrò nella fase migliore della carriera. Fu davvero importante per lui quel gol. Lo scrive pure il suo procuratore storico, Dario Canovi, in un libro. Da quel momento visse una seconda giovinezza, vincendo con la Sampdoria prima e con il San Paolo poi. Mi fa piacere aver contribuito per lui in minima parte. Era il beniamino, l’idolo di tutti. Squadra e tifosi. Un grande”.
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Eriksson che allenatore fu, invece?
“Rappresentava il nuovo, un tecnico moderno. Giovane, vincente e preparato. Vinse quella Coppa Italia a 38 anni. 4 anni prima conquistò la Coppa UEFA con il Goteborg. Era il Nagelsmann di oggi. Un ambizioso. E Viola fu lungimirante ad affidargli il post Liedholm”.
Quella Roma del 1986 – secondo tanti romanisti – è la squadra che ha espresso il miglior calcio di sempre nella storia giallorossa.
“Giocavamo un calcio meraviglioso, è vero. Era una sorta di 4-2-3-1, che poi diventava 4-5-1 in fase difensiva. Non facevamo tanto possesso, ma andavamo più in verticale, con fraseggi di prima spettacolari. Eriksson utilizzava gli esterni come si utilizzano adesso. Un giocatore su tutti – a mio avviso – determinava quel sistema”.
Chi?
“Zibì Boniek. Fu lui il segreto di quella cavalcata, della rimonta alla Juventus. Mai visto un calciatore così in vita mia. Impressionante. Qualità nei piedi mostruosa, uno dei calciatori più tecnici che abbia mai potuto ammirare. Intelligente, furbo, trascinatore. Uno dei pochi che giocava come parlava. Nel senso, parlava e poi faceva i fatti. È un po’ il Mkhitaryan di oggi, con le dovute proporzioni”.
Come venne festeggiata quella Coppa Italia?
“Con infinito entusiasmo. Pensate il sottoscritto. Diciotto anni, romanista, protagonista in una finale di Coppa Italia. Cosa potevo chiedere di più? Eravamo una generazione di talenti, poi ognuno di noi ha fatto carriere diverse. Io, Di Carlo, Lucci, Desideri, Tovalieri, gli stessi Righetti e Giannini che erano poco più avanti di noi negli anni. Eravamo giovani, belli e romanisti”.
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