“La mia famiglia è cresciuta a Trigoria, nella Roma”. Dice Andrea con orgoglio romanista. Ricorda bene quella notte di 30 anni fa, in cui fu protagonista insieme al fratello Daniele, quest’ultimo più piccolo di due anni. Seguirono a bordocampo l’amichevole tra la Roma scudettata del 1983 e una selezione brasiliana, nel secondo tempo si riscaldarono seguendo le indicazioni di Giuseppe Giannini.
Andrea veste giallorosso e ha la 7, Daniele indossa l’azzurro con il 16, il numero con cui “Marazico” si laureò campione del mondo in Spagna nel 1982.
Verso la fine dell’incontro, i due piccoli Conti entrano in campo. L’arbitro Carlo Longhi porge una carezza a entrambi, poi Bruno se li bacia e permette a loro la passerella sul terreno dell’Olimpico. L’esordio con la Roma lo faranno davvero. Entrambi nella stagione 1996-97, prima Daniele a Parma e poi Andrea a Cagliari. Oggi i piccoli sono diventati uomini. E Andrea è entrato nello staff del settore giovanile giallorosso. “Ma ho un rammarico…”.
Un rammarico?
“Sì, mi dispiace di non aver mai potuto debuttare allo stadio Olimpico come quella sera. Ho due presenze ufficiali nella Roma, della stagione 1996-97. Il debutto avvenne a Cagliari, nell’ultima gara di Carlos Bianchi, mentre l’altra presenza la feci un mese e mezzo dopo a Perugia. Successivamente la mia carriera si è sviluppata altrove. A Daniele è andata diversamente. Ha giocato e segnato all’Olimpico con la Roma, per poi fare la storia del Cagliari, dove iniziai io da calciatore professionista. Sembra destino, un incrocio particolare. Anche se l’esordio all’Olimpico lo sfiorai qualche mese prima…”.
In che partita?
“Roma-Napoli, del dicembre del 1996. Mi scaldai per gran parte del secondo tempo a bordocampo, poi a poco più di dieci minuti dalla fine della partita, segnò Aldair e Bianchi preferì far entrare un difensore come Annoni per mantenere il risultato. Vincemmo 1-0”.
Della serata dell’addio, invece, che ricordi mantiene a distanza di 30 anni?
“Tanto tempo. Momenti belli per noi. Eravamo bambini, io e Daniele. Era il nostro sogno entrare all’Olimpico con una maglia da calciatore addosso. A quell’età, poi. Avevo sentimenti contrastanti quella sera. La festa, l’ondata di amore per papà, l’affetto unico di uno stadio così gonfio di gente, ma anche il dispiacere che non avrebbe più giocato per la Roma”.
Però Bruno ha continuato a rappresentare la Roma in altre vesti. Sempre.
“Roma, la Roma, Trigoria, sono sempre state casa nostra. Ci siamo cresciuti, diventati grandi. Seguivamo nostro padre agli allenamenti, alle partite all’Olimpico. Ed è stata una cosa davvero molto bella. Papà la Roma l’ha scelta come ragione di vita”.
Lei, poi, è entrato a far parte dello staff del settore giovanile da qualche tempo. Che effetto le fa lavorare nello stesso ambito di suo padre?
“Quando stiamo insieme parliamo poco o nulla di calcio, per il resto alleno la squadra under 13, i 2008. È bello e stimolante formare i giovani”.
Formare è la parola più appropriata quando si ha a che fare con ragazzi.
“Già, è una cosa che dico spesso. I giovani con cui abbiamo a che fare noi istruttori non sono ancora uomini. Oltre che insegnamenti di calcio, vanno educati, formati nel carattere, nel comportamento. È un mestiere totalmente diverso che allenare una prima squadra. Però mi piace e sono contento. Lavoro per la Roma”.
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