
Per celebrare la Festa del Papà, abbiamo chiesto a dieci padri romanisti di raccontarci l'emozione di vivere la Roma con i propri figli.
Ecco cosa ci hanno detto.
"Il rapporto tra mia figlia e la Roma è profondo: abbiamo frequentato insieme anche il ritiro di Castelrotto. Potete immaginare la sua emozione. Valeria è stata nazionale di triathlon a livello giovanile, ma anche quando aveva le gare non si perdeva una partita".
"Si precipitava allo Stadio e aspettava me per entrare, indossando sempre e solo una maglia di Totti, di De Rossi o di Aquilani. Andavamo in Monte Mario o in Sud, anche se per lei esisteva solo la Curva. Ci manca tutto questo, ci manca l'Olimpico. Ci manca tifare Roma dagli spalti".
Massimiliano preferisce che sia il figlio a descrivere cosa si prova a non andare più allo Stadio con lui. Questa è la lettera che scrive al padre.
"Ripartiamo da questa foto, papà. È l’ultima occasione che abbiamo avuto per stare vicino alla nostra Roma. Era il 26 febbraio 2020, a Gent. Ormai è passato più di un anno e la situazione non è cambiata. A noi non interessa, perché noi la amiamo, e potrà sì mancarci, ma nessuno potrà mai allontanarci dalla Roma. È il nostro quotidiano, la nostra condivisione, la nostra complicità e come tutti gli amori, la nostra gioia e sofferenza".
"Ci manca il nostro prepararci per la partita, uscire tre ore prima del fischio di inizio - ti prendo in giro perché sei vecchio e ragioni ancora come negli anni ’80… - arrivare a piazza Mancini per prenderci la nostra pizza e mangiarla insieme ad altri centinaia di pseudo sconosciuti ma che sono lì per amore come noi, accelerare il passo, farsi il ponte e le scale di corsa per entrare di nuovo nella nostra casa".
"Il 15 marzo è stato il mio compleanno, e alla tua domanda su cosa volessi per regalo, ho risposto: Ora niente papà, rivoglio solo il mio abbonamento. Oggi è la Festa del Papà e la sola promessa che posso farti è che torneremo, torneremo insieme a respirare quell’atmosfera unica che solo lo stadio può dare e solo chi ama la Roma può respirare e condividere. Sarà il nostro miglior regalo, reciproco".
"Il tifo, quello vero, è una sorta di malessere, cronico e voluto, contagioso e indistruttibile. Normalmente viene trasmesso dai genitori e, per ciò che mi riguarda, immediatamente recepito nel momento del primo ingresso sugli spalti dello stadio. È lì che ti innamori perdutamente di quei colori (ovviamente giallo e rosso), e chiunque li indossi è un mito".
"È quanto mi è accaduto la prima volta che, da bambino, mio padre ebbe la felice idea di portarmi all'Olimpico. Tradizione che ho proseguito con mio figlio Valerio. Certo, la sofferenza durante una gara è continua, ma credo che nessun tifoso vero vorrebbe rinunciarvi".
"Con mio figlio c'è quasi sempre lo stesso rituale, quando andiamo a vedere la Roma. La macchina la parcheggiamo dalle parti di piazza Mancini, attraversiamo il ponte, ci facciamo la strada a piedi con calma. Le sciarpe che indossiamo sono sempre le stesse. Il tifo per questa squadra credo di averglielo trasmesso la prima volta che ci siamo andati, era il 1993 e non aveva ancora 6 anni, Roma-Cremonese. Perdemmo purtroppo, ma Valerio rimase affascinato dallo stadio, dal tifo, dai colori".
"Hai voglia a dire che vedi la partita comodamente in salotto... La domenica non è più quella di una volta, senza l'Olimpico con mio figlio. La mattina, alle 11, io e Gianluigi eravamo già pronti: sciarpe, cappelletti - avevamo il giallorosso ovunque addosso - panini con la mortadella, caffè, e le caramelle che compravamo al bar dello Stadio".
"Con mio fratello Silvano e un caro amico, Lucianello, purtroppo tutti e due precocemente scomparsi, ci davamo appuntamento all'Obelisco. Da quel momento, non eravamo più persone normali: invasati, scorbutici, scaramantici, col dramma della formazione. Poi c'era la partita, dove poteva succedere di tutto. E alla fine, o era il trionfo o era un funerale. Quella sì che era una domenica".
"Da quel quel giorno del 2014 in cui rimasi attonito nel leggere della tragedia di Stefano e Cristian - papà e figlioletto scomparsi in un incidente stradale mentre tornavano a casa dallo Stadio - andando all'Olimpico ho iniziato a notare, più di tutti gli altri, i bambini e le bambine teneramente per mano o in braccio al loro genitore, bandierina della Roma stretta forte nel pugno, gli occhi pronti a catturare l'emozione e i ricordi di ogni istante di quella giornata".
"Fu mio padre, Antonio, a trasmettermi la passione giallorossa e a insegnarmi che la Roma è una cosa seria, fu lui negli anni Ottanta a regalarmi i primi abbonamenti ai Distinti; abbiamo trascorso insieme sugli spalti delle serate bellissime, che rivivo nella mente ogni volta che, sul viale dello Stadio, mi batte forte il cuore nel vedere tutti quei papà con prole al seguito, e penso alla Roma che scorre di generazione in generazione".
"Il giorno che mia figlia, se le andrà, volesse venire con me sugli spalti, le racconterò di quanto, tutto questo, in questo anno surreale, mi sia mancato, e di quanto mi manchi il mio papà, a partire dal leggere nei suoi occhi quel luccichio quando raccontava di Giacomo Losi, e quel lampo di felicità ogni volta che ha vinto la Roma!"
"Mio figlio, abbonato assieme a me in Curva Sud dal 2017, è cresciuto respirando Roma, con un papà e uno zio che vanno in Sud dal 1981 e con una nonna che a 79 anni va ancora allo Stadio. Gli ho raccontato del dramma di Rocca, dello scudetto dell'83 e di quella maledetta finale dell'84, gli ho spiegato chi erano Falcao, Bruno Conti, il Principe e Rudi, Daniele De Rossi e di quanto fossi stato fortunato a vedere tutta la carriera in campo del più grande di tutti: Totti 10".
"Gli ho raccontato il CUCS e l’onore di avere quella tessera. Andrea era romanista prima di nascere. Quando è entrato per la prima volta allo Stadio, l'ho immortalato e in lui ho rivisto me, che salivo quelle scale con mio fratello al fianco e mio nonno alle spalle. Oggi tutto questo non c'è più e ci manca terribilmente. Ogni domenica, a casa ricostruiamo un pezzo di Sud, con sciarpe e bandiere e Andrea canta e lancia i cori. Ma torneremo e saremo più forti. Forza Roma".
"È passato più di un anno da quel 23 febbraio 2020, ultima volta che abbiamo visto la Roma allo Stadio. Quante partite sono scivolate via senza poterti essere fisicamente accanto, nostra amata Roma, ma noi siamo sempre stati lì, mai un cedimento, mai un ripensamento, comodi dal divano di casa ma scomodi nel cuore. Sempre al tuo fianco, nel bene e nel male, aspettando un gol di Dzeko, una sovrapposizione di Spinazzola, un anticipo prepotente di Mancini, una piroetta di Villar e una giocata di Pellegrini o Mkhitaryan".
"Tutto questo però ci manca: ci mancano il brusio dei tifosi mentre ci avviciniamo agli spalti, le chiacchiere prima della partita con i vicini di posto, l’adrenalina nell’aria, i cori della Sud, i boati e gli abbracci dopo un gol, la gioia della vittoria condivisa, ma anche la pacca sulla spalla dopo una partita andata storta".
"Tutto questo ci manca, perché sei la nostra Roma. Sei un’abitudine a cui non vogliamo rinunciare".
"Ho 45 anni e la mia storia con la Roma inizia i primi anni Ottanta. Mio padre mi ha trasmesso questo amore. Lui, con mio zio e mia zia, mi portavano allo Stadio. Sono cresciuto con lei, con la Roma. Oggi ho tre figli. Christian di 10 anni, Simone 7 e Livia 4. La prima volta che ho portato mio figlio Christian allo stadio è stato a settembre del 2014. Roma-Cagliari 2-0. Eravamo in Tevere. Che emozione".
"L’ultima partita vista insieme è stata Roma-Spal, nel dicembre 2019. Il calcio è cambiato. E purtroppo questa pandemia ci ha costretti a stare a casa. Mi mancano lo stadio, la gente. Mi mancano il fatto di salire quei gradini, vedere il campo, avvertire il profumo del prato bagnato in inverno, l'odore dei fumogeni e sentire lo speaker che annuncia le formazioni".
"Mi mancano gli abbracci dopo un gol, con gli amici come pure con delle persone che non conosci. Mi manca tutto questo. Quando torneremo alla normalità, porterò tutti e tre i miei bimbi allo stadio. E chiederò a mio padre di venire con noi. In fondo, è nato tutto grazie a lui. Sempre forza Roma".
"Scialla, papà…, dice Valerio. Ho sempre odiato questo neologismo incomprensibile nato per mettere distanza tra genitore boomer e figlio. Ma ora mi manca, tanto. I figli non dovrebbero crescere, lo dico per egoismo, poiché più crescono più si allontanano, non solo fisicamente. E tu passi dal ruolo di eroe indistruttibile a quello di vecchio rimbambito. È la vita. Il modo di vedere le cose è sempre più distante, non esistono più terreni comuni. Non è vero, dal 1927".
"La magica Roma è quella dimensione parallela fuori dal tempo, dove non sei uomo, donna, padre, figlio, bianco o verde. Sei tifoso. Per questo non esiste giorno più bello di quando varchi il tornello mano nella mano con tuo figlio, non esiste giorno più brutto di quando lui ti sussurra scusa pa’, oggi vado con gli amici e tu sei consapevole che sarà per sempre. E non avrai più lui accanto che ti rimprovera, ti calma, ti abbraccia, piange con te. Che quando imprechi per un passaggio sbagliato lui ti dice dandoti un buffetto papà, scialla…. mo’ famo go'.
"Ti odio maledetto virus, ci hai tolto tutto questo, ci hai anticipato tutto questo. Non è giusto. Ma la vita non è giusta, come insegnano Turone, Dalglish e troppi altri".
"Non andare allo Stadio mi manca tantissimo. Non andare con i miei figli Claudia e Francesco mi manca ancora di più. Anche perché per noi era un momento particolare: il gusto di partire da casa, prendere la metro, poi il tram fino a Piazza Mancini e farci a piedi l’ultimo tratto. La cosa carina era quella: lo stare insieme".
"Mia figlia l’ho portata la prima volta all'Olimpico che aveva un anno. Oggi ne ha 14. Poi, la tradizione è continuata nel settore famiglia. Per me, andare allo Stadio vuol dire rafforzare la passione di famiglia e portarci i miei figli ha un significato ancora più profondo, considerando che sono un papà separato. È il ricordo di un vissuto insieme. Quando tutto questo finirà, quando il Covid non ci sarà più, tornare all’Olimpico con i miei figli sarà una delle prime cose che farò".