Serie A, Domenica, 24 NOV, 18:00 CET
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    Questo sono io, Amadou Diawara


    Ecco la sua intervista presentata da Manpower Group.

    Chi era Amadou da bambino?

    “Sono nato in Guinea, a Conakry, la capitale. Mi ricordo che quando ero piccolo mio padre non voleva che facessi calcio. Ogni volta che andavo a giocare dovevo fermarmi a fare una doccia da un amico e poi tornare a casa. La prima volta che gli ho detto che avrei voluto fare calcio ho preso una sberla che ancora ricordo bene. Mia sorella Sira mi aiutava, mi comprava le scarpe e le nascondeva per non farle vedere a mio padre che altrimenti le avrebbe regalate a qualche altro bambino pur di non farmi giocare”.

    Come mai c’era questa avversione nei confronti del calcio?

    “I miei genitori sono insegnanti, mio padre mi diceva sempre che quando rientrava a casa dal lavoro vedeva un miliardo di bambini che giocavano a calcio e che tra tutti quelli, al massimo in due avrebbero potuto farlo come lavoro. Quindi dovevo studiare, visto che era quasi impossibile che io fossi tra quei pochi fortunati. A scuola ci andavo, ma gli orari di allenamento interferivano con le lezioni e a volte la saltavo per andare a giocare”.

    Cosa pensavi quando ti diceva che difficilmente il tuo sogno si sarebbe avverato?

    “Io pensavo solo al calcio e a quanto mi piaceva. Uno di quei pochissimi fortunati potevo essere proprio io. Ho sempre creduto che sarei potuto arrivare in alto, il segreto era lavorare, dare tutto per quello che si vuole raggiungere. Io ho fatto così, ho ‘sfidato’ mio padre che non ci credeva, io ci ho creduto e ce l’ho fatta”.

    Mio padre mi diceva sempre che vedeva un miliardo di bambini che giocavano a calcio e che tra tutti quelli, al massimo in due avrebbero potuto farlo come lavoro...

    - Amadou Diawara

    Alla fine come ha accettato il fatto che ti dedicassi al calcio?

    “Io avevo dato tutto per il calcio, giocavo per strada e con la mia squadra sui campi di fango. Facevo belle partite, facevo gol e qualcuno ha iniziato a venire a casa per informarsi su di me. Mio padre assisteva a tutto ciò. Poi mia sorella mi ha dato una mano, ha parlato con lui per convincerlo. Non è mai stato d’accordo ma eravamo in troppi favorevoli e solo lui contrario, alla fine ha accettato. Ora però è felice per me”.

    Dove hai iniziato a giocare?

    “Ho iniziato sulla strada, ci organizzavamo tra di noi. Poi sono andato in una squadra messa su da un allenatore che si chiamava Alya. Non aveva niente, ma cercava giocatori, la squadra la chiamavamo FC Alya. Ci portava a giocare partite contro altre squadrette come la nostra ma di altri allenatori. Quando avevo 15 anni un allenatore di una squadra di serie A della Guinea mi ha portato a fare uno stage con i ragazzi più grandi, era molto interessato a me, mi portava nei viaggi, per gli allenamenti. Era un amico dell’agente Numeku Tounkara che mi ha visto, ha contattato altri agenti italiani e sono partito per l’Italia”.

    Quanto è stata dura lasciare casa?

    “Non è stato facile. Partire da un Continente e arrivare in un altro, non sapere la lingua. Sono arrivato in Italia dove tanti altri giovani calciatori volevano percorrere la mia stessa strada. È stata una sfida difficile. Ora sto molto bene in Italia. In Guinea non torno spesso e la nostalgia c’è sempre. Però la mia famiglia viene a trovarmi”.

    Qual è stata la tua prima tappa in Italia?

    “Sono andato alla Corvino Academy a Lecce, poi a San Marino, dove ho fatto il mio esordio in Serie C. Il passaggio è stato difficile, per la lingua inizialmente, poi per lo stile di vita. Piano piano mi sono ambientato con i miei compagni e alla fine mi sono trovato bene. A San Marino il mio punto di riferimento era Alessandro Fogacci, un difensore centrale, era uno dei più grandi e da quando sono arrivato mi ha aiutato molto, lo ringrazio ancora per questo”.

    Poi sei andato a Bologna.

    “Sono stato un anno lì, mi sono trovato bene anche se all’inizio non è stato semplice: arrivavo dalla Lega Pro, al Bologna c’erano giocatori già affermati e ho dovuto lavorare duro per avere la fiducia di Mister Delio Rossi. Mi ha aiutato tantissimo: mi ha fatto lavorare in ritiro, mi faceva fare doppie sessioni, mi fermavo sempre a lavorare con lui sulla tecnica, tattica, tutto, perché dalla Lega Pro alla Serie A c’era differenza, dovevo lavorare sodo per poter avere un posto in questa squadra. Alla fine ci sono riuscito grazie al Mister e al suo staff, al direttore Corvino che seguiva i miei allenamenti e mi dava consigli e mi ha dato molta carica, mi sentivo protetto.
    Ho sempre creduto in me stesso perché per partire dall’Africa e arrivare in un anno fino alla Serie A credere nei propri mezzi è indispensabile. Il mio ex agente per esempio non credeva che avrei potuto fare questo salto e anche per questo l’ho lasciato. Oggi sono in una grandissima squadra e posso dare ancora di più perché ho ancora tanto da dimostrare”.

    Che ricordi hai dell’esordio in Serie A?

    “È stato all’Olimpico. Sono entrato nel secondo tempo di Lazio-Bologna, era completamente diverso dalla Serie C in cui avevo giocato fino a poco prima. È stata un’emozione che non riesco a spiegare, era il mio sogno da bambino arrivare a giocare in Serie A, nel calcio che conta”.

    Dopo il Bologna, l'esperienza al Napoli…

    “Penso che sia stato Mister Sarri a volermi al Napoli, lo ringrazio perché mi ha fatto crescere molto come calciatore. Mi ha insegnato a giocare a calcio, facendomi entrare da subito anche in partite importanti dimostrando di avere fiducia in me. Poi le strade si sono divise ma lo ringrazio per quello che mi ha dato come calciatore e come uomo.
    Quando è arrivato Mister Ancelotti non sapevo se sarei restato al Napoli, poi lui mi ha chiamato per dirmi che contava su di me. Alla fine non è andata così, è una brava persona, ma con lui il rapporto non ha funzionato del tutto”.

    Ho sempre creduto in me stesso. Per partire dall’Africa e arrivare in un anno fino alla Serie A è indispensabile credere nei propri mezzi

    - Amadou Diawara

    Ora sei alla Roma: com’è lavorare con Mister Fonseca?

    “È un grandissimo allenatore, un po’ simile a Sarri, vuole sempre uscire palla al piede sfruttando il gioco dei centrocampisti, questo mi piace tantissimo. Questa nuova avventura è un nuovo step della mia carriera, devo superarlo. Questa estate, dopo la Coppa d’Africa, sono tornato prima dalle vacanze per conoscere prima il Mister e i compagni, non vedevo l’ora di partire con la stagione”.

    Che emozione è stata partecipare alla Coppa d’Africa?

    “Giocare per la Guinea per me è un’emozione inspiegabile. Quando i tifosi cantano l’inno mi vengono le lacrime. Questa per me è stata la prima Coppa d’Africa e non vedevo l’ora di giocarla, è stata un’esperienza incredibile”.

    Da bambino chi era il tuo idolo?

    “Yaya Touré, lo guardavo in tv a casa, giocava nel Barcellona in quel periodo. Lo seguivo con la nazionale della Costa d’Avorio. Per noi la Coppa d’Africa è molto importante, tutti ci riuniamo davanti a una tv a guardare le partite. Lui era il mio idolo quindi guardavo le partite della Guinea e tifavo per la mia Nazionale, ma tifavo anche per lui. Aveva una grande visione di gioco, giocava nel mio stesso ruolo, sognavo di diventare come lui. Del calcio italiano mi piaceva tantissimo De Rossi e guardavo tante partite della Roma perché volevo vederlo giocare, mi faceva impazzire come giocava. Mi piaceva come utilizzava il campo, la visione di gioco, le giocate di prima, mi piaceva tantissimo”.

    Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto per la tua carriera?

    “Il consiglio migliore che ho ricevuto nella vita è di mia mamma Nagnouma, che non c’è più. Mi ha detto che lei era l’unica persona che avrebbe potuto darmi ogni cosa che le avessi chiesto e che senza di lei avrei dovuto imparare a lottare ancora di più per raggiungere i miei obiettivi. Questo mi ha dato tanta carica, anche per la mia carriera. In ogni momento sapevo che avrei dovuto dare il doppio rispetto a tutti gli altri”.

    Come stai vivendo le tue giornate in questo periodo?

    “Sicuramente non è un periodo buono per nessuno. Sto cercando in tutti i modi di stare sereno restando a casa, anche allenandomi con il programma che la Società ci fornisce. Sto cercando di viverla con serenità. Guardo tanti film e gioco alla Playstation, a FIFA, online con i miei amici e con i compagni della Nazionale”.

    Cosa ti manca di più della vita normale?

    “Mi manca in primis il campo, allenarmi con la squadra, mi manca le partite. Lo stop è arrivato proprio nel momento in cui stavo per rientrare, è stato frustrante. Dopo l’infortunio che mi ha fermato per un po’ di tempo ero felice di tornare con i miei compagni, di tornare ad essere a disposizione della squadra, ero pronto a dare il massimo. Poi è stato bloccato tutto così, è stato brutto”.

    La scelta è stata quella di evitare l’operazione per proseguire con un lavoro individuale. Come sono andate le settimane che ti hanno portato ad essere pronto per il rientro in campo?

    “Non c’è stato alcun dubbio sulla scelta di non operarmi. Ho subito un’operazione ad ottobre, il ginocchio allora era bloccato e si doveva intervenire per forza. Questa volta si poteva recuperare diversamente, senza operazione. Non ho voluto operarmi perché eravamo in un momento importante del campionato, non volevo lasciare i miei compagni. Potevo non operarmi, provare a recuperare e rientrare in campo in tempi ragionevoli e ho preferito così. Volevo dare il mio contributo a fine stagione, arrivare ai nostri obiettivi”.

    Ora come stai fisicamente?

    “Sto bene, mi sto allenando tutti i giorni. Mandano ogni settimana il programma di lavoro da fare a casa e lo sto seguendo perfettamente, sto bene”.

    Da calciatore che effetto ti fa sapere che tutto il calcio mondiale è fermo?

    “Buh, si è fermato tutto in generale. Pensare al calcio mi fa un effetto brutto, ma bisogna pensare anche ad altre persone, alla salute, alla vita della gente. Fermando il campionato, fermando tutto, facendo le cose come si deve, restando a casa si possono salvare vite, si può rallentare il virus. È importante seguire questa linea”.

    Sei in contatto con la tua famiglia?

    “Sì, e tutti sono nella nostra stessa situazione. Ovviamente in Italia i numeri del contagio sono più gravi. Comunque tutti i miei familiari, da mia sorella in Svezia agli altri in Guinea sono chiusi a casa facendo tutto il necessario per evitare il virus. Tutti speriamo che la situazione si possa risolvere al più presto”.