All’inizio del mese, i membri del Roma Club Gerusalemme sono stati ospiti speciali del Club e i bambini dell’academy giallorossa hanno avuto la possibilità di visitare sia lo Stadio Olimpico sia il centro sportivo di Trigoria e hanno potuto inoltre incontrare alcuni dei loro beniamini, che prima di allora avevano visto solamente in televisione.
Il Roma Club Gerusalemme ha una storia lunga e ricca e, per festeggiare il suo ventesimo anno di vita, ha organizzato un viaggio speciale a Roma per 30 dei suoi studenti. I viaggio, sebbene fosse incentrato sul calcio, sulla visita dello Stadio Olimpico e sulla gara tra Roma e Fiorentina, è stato anche un’opportunità per istruire i ragazzi su una serie di temi di attualità.
Il fan club ha mosso i primi passi come luogo di ritrovo per una manciata di emigrati italiani che cercavano un modo per seguire la propria squadra. Oggi è diventato un esempio per l’intera area, in grado di riunire giocatori di diverse religioni, etnie ed estrazioni.
“Il calcio è il mezzo per arrivare a questi ragazzi e interagire con loro in maniera diversa”, afferma Samuele Giannetti, vicepresidente e segretario del Roma Club Gerusalemme.
“Il calcio può insegnare ed educare. Prima di tutto noi siamo educatori. Per noi è l’aspetto più importante. Costruire una nuova generazione che sia migliore, a beneficio della società e delle persone stesse”.
Abbiamo intervistato Samuele per sapere qualcosa di più sulle origini del Roma Club Gerusalemme, sul grande lavoro che fa in una città in cui vivono persone di diverse religioni ed etnie e per conoscere i progetti futuri.
Prima di tutto puoi spiegarci com’è stato fondato il Roma Club Gerusalemme?
“Tutto ha avuto inizio alla fine degli Anni 90. All’epoca non c’era il Wi-Fi, internet era poco diffuso e l’accesso alle notizie sulla Roma o sul calcio italiano in generale era molto limitato. Io, Fabio Sonnino, (fondatore del club), Daniel Di Veroli e Fabrizio Di Segni ci trovavamo in Israele ma avevamo tutti un forte legame con Roma e con la Roma e volevamo trovare un modo per condividere la nostra passione”.
“Il club è stato fondato ufficialmente il 17 novembre 1998. Abbiamo organizzato una grande festa al Jazz Café di Piazza Navona, nei giorni successivi alla vittoria della Roma sulla Juventus (il 15 novembre). Nel 2-0 con cui i Giallorossi si erano imposti sui bianconeri erano andati a segno Candela e Paulo Sergio. Eravamo riusciti a organizzare una festa a Roma, per festeggiare l’apertura del primo club di tifosi fuori dall’Italia e avevamo invitato 400 persone. Alla fine, per via dell’entusiasmo che aveva fatto seguito alla vittoria sulla Juve, si sono presentate 600 persone, tra cui lo stesso Candela e Marco Delvecchio!”.
Puoi raccontarci qualcosa di Fabio, il presidente?
“Fabio è costretto su una sedia a rotelle. Ha una paralisi cerebrale, a causa di una breve assenza di ossigeno al cervello avvenuta durante la nascita. All’inizio poteva camminare, con l’aiuto delle stampelle o di un girello, poi con il tempo la sedia a rotelle si è rivelato l’unico modo per spostarsi.
Per me è sempre stato una grande fonte di ispirazione. Perché non riesce a fare molte cose e quando le fa impiega molto tempo. Ma mi parlava di quando era a Roma, di quando prendeva da solo il treno per andare a Milano per andare a vedere Milan-Roma. Non era semplice per una persona nelle sue condizioni. L’impegno e la forza che ci metteva nel farlo sono le migliori qualità attraverso le quali posso descriverlo.
Mi ha fatto comprendere la sua passione e quello che era disposto a fare per la Roma. Poco dopo la fondazione del club, siamo stati inviati da ESPN in Israele, perché stavano trasmettendo il derby con la Lazio. La partita è finita 3-3 con la rimonta della Roma, a conclusione di una terribile striscia di risultati nel derby. Quando Francesco Totti ha segnato il gol del pareggio, Fabio non è riuscito a trattenersi per la gioia e ha fatto cadere tutti i microfoni dal tavolo mentre esultava!
Ma non vuole alcun tipo di aiuto per condurre una vita normale e si arrabbierebbe con me se mai esprimessi pena o preoccupazione per la sua situazione. Ovviamente cerco di aiutarlo e lui fa lo stesso con me. Per me è un esempio e quello che faccio ora e le cose su cui lavoriamo sono senza dubbio frutto della sua passione”.
All’inizio immagino foste in pochi…
“All’inizio prendevamo letteralmente in mano il telefono e invitavamo le persone a venire a casa di Fabio per vedere le partite. Avevamo creato una sorta di club per seguire la Roma. L’idea poi ha iniziato a svilupparsi e dopo un po’ di tempo abbiamo deciso di organizzare dei tornei all’interno del gruppo: partite con il consolato italiano, con i poliziotti che lavoravano al consolato e con altri gruppi di persone che iniziavamo a conoscere, ebrei, cristiani, chiunque. Era qualcosa di aperto, di positivo.
Dopo circa un anno ho chiesto: e se creassimo qualcosa di bello che coinvolgesse i bambini? Così nel 2008 abbiamo dato vita all’academy con sette bambini e anno dopo anno la cosa si è fatta sempre grande”.
Com’è cresciuta?
“Con il passaparola, i genitori ne venivano a conoscenza e dopo circa cinque anni c’erano più di 150 bambini a giocare con noi. Purtroppo al momento non riusciamo ad allenarne di più. È difficile fare tutto, perché molti di noi sono volontari, ma al tempo stesso ci sono allenatori, campi, assicurazioni e attrezzatura che devono essere pagati. Ci sono molte spese e non è semplice. Ma se pensiamo all’inizio, anno dopo anno sempre più bambini sono entrati a far parte del gruppo”.
Che tipo di bambini vengono al club?
“Ci sono bambini di diversa estrazione. Non provengono da un singolo quartiere, ma da tutti i quartieri di Gerusalemme. Ci sono bambini ebrei, musulmani, cristiani. E ci sono anche bambine, ovviamente.
I nostri ragazzi hanno un’età che va dai cinque ai quattordici anni. Non guardiamo il colore della pelle, la religione, la provenienza, e cerchiamo di trasmettere loro questo insegnamento.
Diciamo ai bambini, indipendentemente dalla loro provenienza, che si sentiranno sempre inclusi. L’inclusione è il nostro motto. Cerchiamo di parlare in diverse lingue e molti bambini vogliono venire a giocare con noi perché sentono parlare di questa cosa. Purtroppo oggi devo dire di no a molti, perché non abbiamo più posto. Ma con quello che facciamo possiamo cercare di migliorare la società e il nostro Roma club può svolgere un ruolo fondamentale”.
Qual è la filosofia del club?
“Negli anni abbiamo imparato molte cose facendo questo lavoro e allenando così tanti bambini. Abbiamo imparato come farli crescere, come giocatori ma anche in come persone. Abbiamo una politica anti-violenza molto severa. Essere violenti non è consentito, e non parlo solo di violenza fisica ma anche di quella verbale. Non si può insultare gli altri. Perché se si comincia con la violenza verbale, si passa poi alla violenza fisica. Quindi lo stronchiamo sul nascere.
Quando arrivano, diciamo loro: ‘Ok, se volete restare qui ci sono due regole che dovete seguire’. La prima è il rispetto. Il rispetto verso gli allenatori, verso gli altri bambini e verso i vostri amici. La seconda è l’assenza di violenza, di qualsiasi tipo.
E cerchiamo di trasmettere questi insegnamenti anche attraverso le piccole cose. Per fare un esempio, tutti i bambini devono portare le borse al campo e ordinarle in maniera corretta. Questo non fa necessariamente parte della mentalità del posto. Ma i bambini imparano che ci aspetta che loro facciano questo tipo di cose e quindi si abituano a farle. E questo poi entra a far parte della loro mentalità. Crea ordine in campo e anche nella loro testa. E imparano anche qualcosa di loro stessi. Non è sempre facile, ma vogliamo insegnare anche questo, oltre al calcio. Così lo facciamo”.
I bambini sono abituati a stare insieme a bambini di una cultura diversa?
“Alcuni, ma non tutti. E ci assicuriamo che socializzino anche fuori dal campo. Ogni mese organizziamo qualcosa di diverso. Che sia andare a mangiare fuori insieme, ogni volta in un ristorante diverso, oppure andare tutti insieme al cinema. Così iniziano a conoscersi anche fuori dal campo. Inoltre, abbiamo allenatori in grado di parlare diverse lingue. A volte sono costretti a tradurre le cose per far arrivare il messaggio a tutti i bambini. Noi vogliamo che ogni bambino si senta a casa”.
È difficile riuscire a farli stare insieme?
“Nel tempo abbiamo scoperto che i bambini stessi hanno iniziato a educare i propri genitori. Abbiamo visto che all’inizio l’intolleranza proveniva dai genitori stessi “Non vuole giocare con lui”, “Non vogliono giocare con lei” e così via, ma i bambini dicono ai genitori “No, noi vogliamo giocare” o “Non ci interessa”.
Non importa da dove vengano, chi siano, o cose del genere. E abbiamo iniziato a perseguire questo programma, che continui a promuovere l’inclusione e l’accettazione. E credo che ora abbiamo una buona base per far crescere ulteriormente questo gruppo”.
Cosa significa in concreto?
“Diciamo che ora siamo dei semi-professionisti. Abbiamo una buona squadra, abbiamo dei buoni allenatori. Ci assicuriamo che i nostri allenatori prendano parte ai corsi di aggiornamento quando possibile, ma per crescere ancora abbiamo bisogno di qualcosa di più. Lo scorso anno abbiamo vinto il campionato di Gerusalemme per i gruppi under-13 e under-14 e credo che quest’anno potremo fare altrettanto. Abbiamo un bel gruppo e un progetto vincente. Ma dopo 10 anni, credo sia giunto il momento di fare qualcosa di ancora più importante.
Purtroppo il livello del calcio israeliano in generale non è molto alto. Ma ci sono così tanti bambini e ragazzini che vogliono imparare e migliorare e ci sono così tanti genitori che vogliono che i loro figli imparino di più e migliorino, quindi è questo l’aspetto su cui dobbiamo concentrarci. Il nostro nome è molto conosciuto, a Gerusalemme e in tutto Israele. Siamo rispettati, abbiamo vinto trofei e abbiamo molti bambini che imparano cose che vanno oltre il calcio”.
Qual è il livello di talento presente in Israele?
“Ho parlato recentemente con l’allenatore della nazionale belga femminile under-21 e mi ha detto che Israele assomiglia molto al Belgio, perché non è un paese grande ma c’è molto interesse nei confronti del calcio, c’è molta passione e molti bambini a cui insegnare. Servono le infrastrutture. Ma a questi bambini possiamo insegnare cose che vadano oltre il calcio.
Ti faccio un esempio. Un mese fa ero a Roma assieme ai bambini. E questi bambini ignoravano davvero molte cose. Ad esempio non sapevano che dovevano avere il passaporto, non sapevano come si prendeva un aereo, cosa bisognasse fare in aeroporto, cose di questo genere. Abbiamo dovuto spiegare tutte queste cose.
Attraverso il calcio possiamo, in un certo senso, fare in modo che i bambini possano sviluppare determinate conoscenze e vivere questo tipo di esperienze. Il calcio può insegnare e far crescere. Prima di tutto siamo educatori. Per noi è l’aspetto più importante. Costruire una nuova generazione che sia migliore, a beneficio della società e delle persone stesse”.
Com’è andato il viaggio a Roma?
“Al viaggio del mese scorso hanno preso parte trenta bambini. Non è stato semplice organizzarlo, credimi! Ho iniziato a organizzarlo lo scorso agosto. Ogni volta che andiamo a Roma, devo pianificare tutto nei minimi dettagli. C’è un piano A e poi c’è sempre un piano B.
Dove alloggiamo, come ci spostiamo…è sempre molto difficile. E dobbiamo sempre stare molto attenti anche dal punto di vista della sicurezza. Perché un gruppo come il nostro, con persone di diverse etnie, di diversi credi e di diversa religione che giocano e imparano insieme potrebbe essere visto di cattivo occhio da coloro che non sono d’accordo con il nostro messaggio. Quindi, dobbiamo stare molto attenti.
Dietro c’è molto lavoro, ma alla fine credo che i bambini tornino a casa entusiasti, felici e riconoscenti. Fanno migliaia di foto e creano dei ricordi che non dimenticheranno mai”.
Sembra che il calcio sia un elemento chiave del viaggio ma che non sia necessariamente l’aspetto principale…
“Quando eravamo a Roma, abbiamo portato tutti i bambini musulmani, ebrei e cristiani alla moschea, alla sinagoga e in Vaticano.
In ogni luogo, dicevo a tutti: entrate! Perché è qualcosa di molto diverso, ad esempio gli ebrei che vivono in Israele non possono entrare in una moschea, così come i musulmani non possono entrare in una sinagoga e così via. Questo avviene per motivi di sicurezza, per via delle tensioni e di tutto il resto. Ma a Roma, tutto è aperto a tutti. Quindi dico ai bambini di entrare, perché per loro è un’occasione per vivere qualcosa di diverso, per aprire la mente e imparare cose nuove della vita.
E questo poi si traduce sul campo, perché se apri la mente fuori dal campo, lo puoi fare anche mentre giochi. E l’inclusione ti aiuta a giocare di squadra. Perché la squadra è sempre più forte del singolo. Ed è questo che spiego ai bambini. Non solo nel calcio, ma anche nella vita, il gruppo potrà sempre raggiungere traguardi più importanti rispetto al singolo”.
Immagino che i bambini siano stati contenti di andare all’Olimpico e di visitare Trigoria…
“Certamente, per loro forse il calcio è più divertente, perché sanno tutto dell’Olimpico e conoscono tutti i giocatori! Al tempo stesso, volevo che le persone parlassero loro in maniera diversa, che spiegassero loro la storia e la cultura della città. Moltissimi bambini non conoscevano il Colosseo, non sapevano cosa fosse, quindi dobbiamo spiegarglielo. Così come con l’aeroporto e gli aerei, dobbiamo spiegare com’è nato il Colosseo, a cosa serviva e così via.
Per noi non c’è solo il calcio. Anche queste cose sono importanti. Il calcio è il mezzo per arrivare a questi bambini e interagire con loro in maniera diversa, per spiegare loro anche altre cose. Quando squadre nazionali importanti vengono in Israele, come l’Italia under-21 qualche anno fa, cerchiamo di portare i bambini a vederle. Così possono imparare a conoscere la squadra, ma anche la cultura. Passo dopo passo, cerchiamo di fare anche questo”.
Come viene finanziato il club?
“Diciamo ai genitori che c’è una somma annuale da pagare, affinché i bambini possano giocare con noi. Ma sappiamo che se una famiglia non può pagare, di certo non espelleremo il bambino. L’intero progetto si basa su donazioni e anche sul duro lavoro di molti volontari. Cerchiamo sempre di trovare donazioni per coprire i costi dei bambini.
Non accettiamo donazioni da organizzazioni politiche, dallo stato, da organizzazioni religiose e dal ministero dello sport. Vogliamo starne fuori.
Quindi riceviamo solamente donazioni private, da persone sparse per il paese e anche da più lontano, persone che credono nel progetto e in quello che cerchiamo di fare. Parlo con le famiglie dei bambini e, se questi vogliono giocare, troveremo un modo per farlo, anche se per qualche motivo le famiglie non dovessero essere in grado di sostenere i costi. Oggi il costo è di circa 500 euro all’anno e copre il doppio allenamento settimanale, le partite e la divisa. Non è molto. So che altri club fanno pagare anche il doppio o il triplo. Ma questo è il nostro progetto.
Abbiamo iniziato in pochi, c’erano appena sette bambini, ora ce ne sono 150. E i genitori sanno che i loro figli avranno la possibilità di andare a Roma, di vedere il Colosseo, di vedere l’Olimpico. È un’opportunità incredibile. Per molti di loro, considerata la provenienza, non è un’opportunità che solitamente potrebbe capitare”.
Il club ha fatto conoscere la Roma in Israele?
“La Roma qui è molto conosciuta ora, certo. Soprattutto lo scorso anno, dopo che la squadra ha raggiunto la semifinale di Champions League e dopo che ha battuto il Barcellona, c’è stato molto interesse nei confronti della squadra giallorossa. Qui molti media mi chiamano quando la Roma fa qualcosa, per parlare della squadra. Perché conoscono bene il nostro club e sanno quello che facciamo qui”.